Alle origini della bandiera valdostana
Mauro Caniggia Nicolotti • 21 aprile 2022
Alle origini della bandiera valdostana
La bandiera valdostana, è noto, presenta due colori: il nero e il rosso, come stabilito da un’apposita legge che la riconosce.(1)
Per la precisione, e anche questo è oramai assodato da tempo, tali colori hanno origini ben specifiche.(2)
Il nero, infatti, è mutuato da quello appartenente al campo dello stemma dell’antico Ducato di Aosta(3)
su cui, inoltre, campeggia un leone d’argento;(4)
blasone in uso fin dal Cinquecento(5)
ed oggi adottato anche per rappresentare la Regione Autonoma della Valle d’Aosta.
Per quanto riguarda il rosso, invece, bisogna rifarsi ad una idea del canonico Joseph Bréan (1910-1953). Questi, probabilmente nel 1941,(6)
si accorse che dallo stemma della città di Aosta - simile a quello ducale, ma sormontato da quello gentilizio sabaudo - privato sia del leone, sia della croce bianca dei Savoia, semplificava nei colori rosso e nero.(7)
Il religioso, allora, utilizzò questi ultimi per confezionare parte della copertina del suo volumetto(8)
I grandi valdostani
che andò in stampa il 30 marzo 1942: due strisce orizzontali, infatti, una che corre in alto e l’altra che sfila in basso, incorniciano una foto della statua di Sant’Anselmo;(9)
quella superiore alterna al rosso il nero, inversamente fa il nastro posto in fondo.
Quelle orlature, che dovevano servire a evocare la valdostanità dei grandi personaggi da lui censiti, dovette ispirare qualcuno...
Presto, infatti, la Resistenza decise di adottare quei colori e, come ricordò Vincent Trèves, la prima bandiera valdostana bicolore fu issata intorno al 20 agosto 1944 alla frontiera con la Svizzera.(10)
Non a caso, quando il giornalista Merry Bromberger, inviato speciale in Valle d’Aosta del periodico francese Combat, ebbe modo di incontrare in alta montagna un gruppo di partigiani notò che essi, Guides du Cervin ou mineurs évadés des galeries de Cogne, ils portent presque tous sur leur anorak ou simplement sur leur veston trempé de neige et d’eau, l’écusson rouge et noir des autonomistes du Val d’Aoste qui réclament le rattachement de leur pays à la France.(11)
La questione del vessillo valdostano - sia simbolica, sia coloristica - diventò quindi di dominio pubblico e, ça va sans dire, sollevò diverse curiosità.
Il 1° dicembre 1944, infatti, dalle pagine del giornale parigino degli emigrati valdostani, La Vallée d’Aoste, qualcuno si chiese: Quelle est la couleur du drapeau valdôtain?
M. Bromberger dans ses intéressants articles de “Combat” nous relate que nos maquisards valdôtains ont adopté un écusson noir et rouge (stendhaliens sans le savoir) comme emblème du drapeau valdôtain.
Quelles sont les raisons historiques de ce choix? Nous l’ignorons.
Il parait cependant qu’il peut y avoir d’autres couleurs valdôtaines. En effet, si nous ne nous abusons, l’Union Valdôtaine de Genève s’est donné un drapeau aussi à deux couleurs, mais vert et rouge.(12)
Quelles couleurs a-t-on eues dans l’ancien temps? Nous avons posé cette question à des experts en histoire et nous attendons la réponse.
Quest’ultima, a quanto pare, non tardò ad arrivare e fu pubblicata dallo stesso giornale il 13 gennaio 1945: sostanzialmente s’incentrava sull’ispirazione all’antico scudo ducale; ma... Mais reste la question du drapeau, sa forme et, sa composition.
Secondo il parere di un sacerdote valdostano della zona di Lione - sosteneva il foglio - i colori valdostani erano de sable en chef et de guele le reste, posées horizontalement, quindi nero e rosso disposti in senso orizzontale. Toutefois
- concludeva il giornale - dans les écussons des maquisards, les couleurs sont verticales, un pétit détail qu’on pourrait demander à des compétents d'élucider. Probabilmente, i partigiani, come detto, s’ispiravano ai colori usati nelle bande della copertina del libro di Bréan.
Comunque sia, la bandiera fu subito utilizzata in numerosi momenti legati a quei mesi difficili e di passaggio.(13)
Nei giorni della Liberazione, infatti, un articolo si esprimeva in questi termini:
C’était beau de voir flotter, côte à côte, d’une fenêtre de la maison communale, dans les vallées qui étaient, l’été dernier, aux mains des maquisards, le tricolore blanc rouge et vert et le drapeau rouge et noir, insigne particulier du maquis valdôtain; c’était beau de voir, sur la poitrine de nos maquisards, l’écusson rouge et noir surmonté ou traversé par un ruban blanc rouge et vert. Ainsi, Valdôtains et non Valdôtains de naissance luttaient, fraternellement, dans les mêmes formations, sous les mêmes chefs, tous unis par un seul mot d’ordre - Italie et Vallée d’Aoste -, tous animés par une seule volonté, la volonté de reconstruire une Italie et, partant, une Vallée d’Aoste libres.(14)
Nelle foto delle manifestazioni di quegli anni di fine guerra si notano bandiere a strisce orizzontali che riportano il rosso a volte sopra, altre sotto; successivamente le bande diventeranno verticali e, finalmente, con il colore nero dalla parte dell’asta.
Una piccola nota di... colore: in occasione del Natale 1945 il giornale La Vallée d’Aoste, come idea per una strenna natalizia, suggeriva di regalare uno stemma valdostano (“simbolo di poesia e di ideali”): A chaque corsage valdôtain et à chaque veston valdôtain... un écusson valdôtain.(15)
(1) L’articolo 5 della legge regionale valdostana del 16 marzo 2006, n. 6 recita: La bandiera della Regione è formata da un drappo di forma rettangolare, alto due terzi della sua lunghezza, suddiviso verticalmente in due sezioni uguali di colore nero e rosso, con il nero aderente all’inferitura. (2) Si tenga presente, inoltre, che tali colori sono presenti anche nello stemma della potente famiglia Challant. (3) Edoardo di Savoia detto il Liberale (1284-1329) fu il primo a intitolarsi la qualifica di duca d'Aosta. (1323-1329). (4) La Vallée d’Aoste, 13 gennaio 1945. (5) Il leone valdostano è presente sull’insegna del Duca Emanuele Filiberto di Savoia (1559-1580). (6) Il libro, di cui si tratta nelle righe che seguono, ottenne il ringraziamento del Papa con lettera datata 26 aprile 1941. (7) Fonte: Gli stemmi della Regione e dei Comuni della Valle d’Aosta: https://www.regione.vda.it/autonomia_istituzioni/Simboli_Regione/Bandiera/bandiera_i.aspx
(8) L’autore, nella prefazione, lo definisce lavoruccio, p. 5. (9) La statua si trova ad Aosta in via Xavier de Maistre. (10) Nel suo libro “Entre l’histoire et la vie”, Vincent Trèves ricorda che la prima volta, per quanto ci è dato conoscere, in cui la neonata bandiera valdostana, cucita da alcune donne di Valtournenche, fu innalzata su un pennone, fu verso il 20 agosto 1944, al posto di frontiera con la Svizzera della Tête Grise, durante le operazioni di guerriglia della 101 brigata “Marmore”, comandata dal partigiano Tito (Celestino Perron). «Tandis que nous nous rangions en cercle, derrière le peloton de nos hommes, alignés au pied du mât - scrive Trèves - le commandant suisse rentra dans sa caserne pour en ressortir aussitôt, suivi de ses gendarmes, armes à la main. Tito donna l’ordre d’hisser le drapeau valdôtain. Nos hommes présentèrent leurs armes, alors qu’à nouveau s’élevait le chant de Montagnes valdôtaines accompagné de coups de salve tirés en l’air. La solennité du moment m’émut au point que des larmes coulèrent sur mes joues. Le drapeau montait lentement le long du mât. A notre grand étonnement, nous avons entendu: “Garde à vous”. Nous avons vu les Suisses, au pied de leur mât, en train de présenter aussi les armes alors que le drapeau suisse se baissait pour remonter avec le nôtre en signe de salut».
Fonte: vedi
nota 6.
(11) Combat, 10 novembre 1944. (12) Le président, M. Victor Malluquin, en recevant le drapeau, coquette bannière présentée par Madame Grange, (escortée de demoiselles aux écharpes rouges et vertes) a remercié vivement les dames pour leur amabilité, car, cette bannière, chef d’œuvre de broderie, où brille l’écusson valdôtain, dans l’or et les couleurs du pays. Tale bandiera fu inaugurata il 21 agosto 1904 dalla Société de Secours Mutuels L’Union Valdôtaine de Genève; Le Mont-Blanc, 23 settembre 1904. (13) Le Val d’Aoste libre, 1° giugno 1945. (14) La Vallée d’Aoste, 21 aprile 1945. (15) Edizione del 29 dicembre 1945.
Immagine di copertina tratta dal giornale Combat
del 12 novembre 1944.


Aosta, la Roma delle Alpi Passeggiare per Aosta è come sfogliare un manuale di archeologia senza sfogliare nulla: basta alzare lo sguardo e ci si imbatte in un arco onorario, una porta monumentale, le mura, il teatro, il criptoportico. Pietre romane che non raccontano solo storie lontane, ma che hanno dato alla città un soprannome che ancora oggi risuona familiare: la Roma delle Alpi . Ma quando nasce davvero questo appellativo? E perché? Frugando tra le pagine di giornali ottocenteschi, la più antica definizione che sono riuscito a scovare risale al 1850. (1) Ma attenzione: non si parlava ancora di Roma delle Alpi , bensì di Rome du Piémont . E il Piemonte, in quell’epoca, non era soltanto l’idea geografica che abbiamo oggi: era anche il titolo politico del cuore del Regno di Sardegna, lo Stato sabaudo che teneva insieme il Piemonte, la Savoia, la Liguria e, naturalmente, la Valle d’Aosta. L’Italia unita non esisteva ancora, e nemmeno il concetto di "Alpi" come marchio identitario europeo. Dire 'Roma del Piemonte' significava, in fondo, inscrivere l’antica Augusta Praetoria Salassorum nel quadro sabaudo, come capitale simbolica di un’eredità gloriosa. Qualcosa cambiò tra Ottocento e Novecento. Non è solo il tempo del giovane stato unitario italiano, ma è anche il tempo delle prime guide turistiche illustrate, dei viaggiatori che si spostano per cultura e piacere, non solo per necessità. È lì che comincia a circolare con più forza l’immagine di Aosta come Roma delle Alpi : un modo nuovo, più ampio, di situarla non in un contesto politico, ma geografico, quasi naturale. La prima traccia certa che ho trovato risale al 1901. (2) Forse ce ne sono di precedenti, ma da quel momento l’espressione prende piede, fino a diventare quasi un marchio. Poi arriva il fascismo, e il nuovo epiteto trova terreno fertilissimo. Il regime esaltava la romanità come mito fondante della nazione, dell’impero: monumenti restaurati, architettura e retorica imperiale, celebrazioni. Aosta, con la sua densità di vestigia, diventa il laboratorio perfetto... anche per combattere il suo spirito autonomista e la sua francofonia. La Roma delle Alpi non è più solo un modo di dire, ma un titolo che entra nei discorsi ufficiali, nei manifesti, nelle guide, nei discorsi celebrativi. Oggi quell’appellativo è diventato un titolo culturale a pieno diritto. Dopo essere stato strumentalizzato in epoca fascista come emblema di romanità imposta, ha ritrovato il senso che aveva avuto nell’Ottocento: non più bandiera politica, ma marchio turistico e identitario, capace — con la forza delle sue pietre — di richiamare viaggiatori e curiosi da ogni parte del mondo. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) La Ville d’Aoste a été nommée la Rome du Piémont, à cause de ses antiquités : L. Pléoz, Le Garde National soit Almanach du Duché d’Aoste pour l’an 1850 , p. 68. (2) L’Union Valdôtaine , 29 novembre 1901.

13/09/1945 – 13/09/2025 Chi mi legge e conosce sa quanto profonda sia la mia passione per la storia e per le tradizioni valdostane. Oggi ricordiamo l’ Union Valdôtaine , che compie ottant’anni dalla sua fondazione. Per farlo, ho scelto di lasciarmi ispirare da un giornale dell’epoca, L’Union Valdôtaine del 15 dicembre 1945. “La Valle d’Aosta, lungo i secoli, ha sempre custodito la nostalgia delle proprie radici. Un sentimento che riaffiorava con forza ogni volta che pressioni esterne tentavano di soffocare la sua identità. Già dall’Ottocento il nodo più sensibile era la lingua francese, difesa con tenacia da generazioni di valdostani contro le spinte uniformatrici dello Stato. A quella battaglia se ne affiancarono altre: la richiesta di decentralizzare i servizi, mantenere le istituzioni locali, proteggere tutto ciò che rappresentava la specificità culturale e civile della nostra Valle. Le promesse di Roma restarono spesso lettera morta, e la fiducia nelle parole del governo venne meno. Poi arrivò il fascismo. Anche allora furono promessi rispetto e considerazione, ma la realtà fu una persecuzione dura, umiliante, che cercò di spegnere la nostra voce. Eppure il giunco valdostano ( le roseau valdôtain ) si piegò, senza mai spezzarsi. Così, quando la libertà tornò a far capolino, un gruppo clandestino fedele alle tradizioni uscì dall’ombra e devint légion .” In questo clima, segnato da lotte e speranze, il 13 settembre 1945 nacque l’ Union Valdôtaine , riconosciuta poco dopo dalle Autorità Alleate. Non più un movimento clandestino, ma un’associazione con il suo posto al sole, chiamata a essere al tempo stesso muro di difesa e forza di propulsione verso il futuro. Il suo appello era chiaro: unirsi per difendere tradizioni, diritti, cultura; lavorare per elevare la vita morale e sociale della comunità valdostana. Non un ritorno nostalgico, ma un passo deciso verso una ricostruzione che non poteva prescindere dall’identità. Collocata in quel contesto, la fondazione dell’ Union Valdôtaine rappresentò uno dei passaggi significativi della storia politica valdostana del secondo dopoguerra: da associazione culturale e identitaria a movimento politico, realtà che accompagna la vita pubblica della Valle d’Aosta fino a oggi. ---------- 13/09/1945 – 13/09/2025 Ceux qui me lisent et me connaissent savent combien ma passion pour l’histoire et les traditions valdôtaines est profonde. Aujourd’hui, nous nous souvenons de l’Union Valdôtaine, fondée il y a quatre-vingts ans. Pour le faire, j’ai choisi de m’inspirer d’un journal de l’époque, L’Union Valdôtaine du 15 décembre 1945. « La Vallée d’Aoste, au fil des siècles, a toujours gardé la nostalgie de ses racines. Un sentiment qui refaisait surface avec force chaque fois que des pressions extérieures tentaient d’étouffer son identité. Dès le XIXe siècle, la question la plus sensible fut la langue française, défendue avec ténacité par des générations de Valdôtains contre les poussées uniformisatrices de l’État. À ce combat vinrent s’ajouter d’autres : la demande de décentraliser les services, de maintenir les institutions locales, de protéger tout ce qui représentait la spécificité culturelle et civile de notre Vallée. Les promesses de Rome restèrent souvent lettre morte, et la confiance dans la parole du gouvernement s’en trouva ébranlée. Puis vint le fascisme. Là encore, on promit respect et considération, mais la réalité fut une persécution dure, humiliante, qui tenta d’éteindre notre voix. Pourtant, le roseau valdôtain plia, sans jamais se rompre. Ainsi, quand la liberté fit de nouveau son apparition, un groupe clandestin fidèle aux traditions sortit de l’ombre et devint légion. » Dans ce climat, marqué par les luttes et les espérances, naquit le 13 septembre 1945 l’Union Valdôtaine, reconnue peu après par les Autorités Alliées. Elle n’était plus un mouvement clandestin, mais une association ayant trouvé sa place au soleil, appelée à être à la fois un mur de défense et une force de propulsion vers l’avenir. Son appel était clair : s’unir pour défendre traditions, droits, culture ; travailler à l’élévation morale et sociale de la communauté valdôtaine. Non pas un retour nostalgique, mais un pas décidé vers une reconstruction qui ne pouvait pas se faire sans identité. Placée dans ce contexte, la fondation de l’Union Valdôtaine représente l’un des moments significatifs de l’histoire politique valdôtaine de l’après-guerre : d’association culturelle et identitaire, elle devint mouvement politique, une réalité qui accompagne la vie publique de la Vallée d’Aoste jusqu’à aujourd’hui.

Tutte le Aosta del mondo Provate a immaginare che il nome Aosta non appartenga solo alla nostra città alpina, con le sue mura romane e l’Arco di Augusto. Immaginate che quel nome abbia viaggiato lontano, si sia trasformato in Aoste, Aouste, Valdosta, lasciando tracce in borghi francesi, in sogni coloniali e persino sotto il sole della Georgia americana. È la storia sorprendente di un filo che parte da Roma e ancora oggi lega luoghi distanti. Tutto nasce dal latino Augusta , titolo imperiale che i Romani diedero a città nuove o rifondate in onore dell’imperatore. Così, oltre alla nostra Augusta Praetoria Salassorum , ritroviamo Aoste , nell’Isère, piccolo borgo francese che conserva tracce gallo-romane. Più a nord, nelle Ardenne, sorge Aouste , villaggio di campi e boschi con una chiesa medievale fortificata dedicata a Saint-Rémi. E ancora, nella Drôme, Aouste-sur-Sye , un alveare prealpino di case chiare dai tetti rosati dalle quali emerge un bel campanile. Ma la storia non si ferma qui. Nel 1940, durante la breve stagione coloniale italiana, fu annunciata persino un’“ Aosta d’Etiopia ”: un centro agricolo da fondare nell’Harrarino, dedicato al Duca d’Aosta viceré e alla nostra città. Ne parlarono i giornali, si ipotizzò persino un gonfalone da inviare dall’Italia, ma il progetto rimase lettera morta allo scoppio della guerra. E infine, come in un gioco di rimandi inattesi, attraversiamo l’Atlantico. Negli Stati Uniti, in Georgia, esiste Valdosta , città di oltre 50.000 abitanti. Il suo nome deriva da “Valle d’Aosta”, appellativo che un governatore diede alla sua piantagione nell’Ottocento. Lì, tra magnolie e clima subtropicale, sopravvive l’eco lontanissima della nostra Valle alpina. Ecco allora la piccola famiglia delle Aosta del mondo. Ognuna con il suo carattere, le sue storie e i suoi paesaggi. Sarebbe bello farle incontrare tutte, magari in un gemellaggio o una grande festa, sotto lo stesso nome antico che ancora oggi ci accomuna.

La leggenda che segue è ispirata a La Légende des dentelles de Cogne , scritta da Joséphine Duc-Teppex e pubblicata sul giornale Le Mont-Blanc il 17 agosto 1923. Il testo è stato da me reinterpretato e riscritto in italiano, mantenendone lo spirito popolare e narrativo. La leggenda delle dentelles di Cogne Un tempo, a Cogne, i lunghi inverni erano duri e monotoni. Le case, povere e buie, resistevano come potevano al freddo e alla neve. Nelle stalle, le famiglie si radunavano con vicini e amici, attorno al fuoco alimentato dalle pigne, per scaldarsi, parlare e raccontare storie. Fra tutti, il più atteso era Jérôme, che scendeva da Gimillan per raggiungere la casa del cugino Mathurin: passo sicuro, appuyé sur un gros bâton noueux, les souliers ferrés, le bonnet de laine enfoncé bien bas sur le front . Era il miglior narratore di montagna: conosceva non solo le storie dei vecchi, ma anche quelle raccontate nei libri, l’origine delle famiglie, persino i nomi delle pietre. Il était enfin la tradition du pays et sa science. Il en était de plus la sagess e ! Una sera d’inverno, le donne della stalla gli chiesero un racconto. J érôme sorrise e cominciò: «Questa storia non viene dai libri, ma dalla mia stessa nonna, Césarine. Un tempo ella era giovane e bella, ma povera e sola con suo padre, oppressa dai debiti. Un giorno, triste davanti alla porta, sospirò: “ Ah, se ci fossero ancora le fate buone, che aiutano chi soffre!” Ed ecco che apparve la mère Cunégonde, una fata alta e magra, con il capo incoronato di rododendri e un abete di cinque metri come bastone. “Ho visto la tua pena dalla cima del Gran Paradiso” le disse, “e vengo a consolarti” . Battendo tre volte a terra con la punta del suo bastone, fece comparire dieci minuscoli operai, spiritelli vivaci, non più alti di un fiammifero. Poi soffiò sulle mani di Césarine: i diavoletti entrarono nelle sue dita, trasformandole in strumenti di meraviglia. Infine, dalla punta del suo abete lasciò cadere un fiocco di ghiaccio purissimo del Gran Paradiso, così fine e trasparente da sembrare intagliato come i pizzi di Venezia. “Ecco il tuo dono” disse, “sta a te saperne trarre fortuna” . Poi si avviò verso il ghiacciaio della montagna. Da quel giorno, le mani di Césarine filavano e lavoravano pizzi così belli e delicati che presto si diffusero ovunque. Con il lavoro pagò i debiti, visse serena e non conobbe più la noia: i diavoletti, nascosti nelle sue dita, le tenevano compagnia mentre lei creava merletti e cantava». La bella Giovannina, una canavesana della Val Soana trasferita a Cogne, che spesso si stancava davanti al suo arcolaio, comprese la lezione: si accorse anche lei di avere autant de diablotins habiles et lestes que de doigts . Da quel momento la sua casa si riempì di fiori e di merletti, e tutte le donne di Cogne adornarono i loro costumi con quei pizzi che ancora oggi caratterizzano l’abito tradizionale del paese. Così, secondo una leggenda, nacque la tradizione dei pizzi a Cogne... L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa.

Il gigantesco albero di Courmayeur Nell’estate del 1832 il naturalista francese Sabin Berthelot (1794-1880), attraversando le vallate del Monte Bianco, s’imbatté in un abete rosso ( Abies excelsa ) tra Dolonne (Courmayeur) e Pré-Saint-Didier. I valligiani lo chiamavano Écurie des chamois ; in alcune carte erudite ricorre anche come Le sapin du Bequé . Misurato au-dessus du collet de la racine , presentava 7 metri e 62 centimetri di circonferenza; confrontando gli accrescimenti di abeti più giovani delle foreste vicine, Berthelot stimò addirittura un’età attorno ai 1200 anni. (1) Le sue osservazioni passarono presto sulla carta stampata e circolarono a lungo nelle pubblicazioni di settore, portando la voce dell’albero nel circuito colto europeo. Tempo dopo, nell’agosto 1849, Filippo Parlatore transitò in Valle d’Aosta. Nel Viaggio (2) confessò con rammarico di non aver chiesto alla guida di condurlo fin lì, ma fissò su pagina nome, fama e toponimo, rimandando alle misure e all’età già date da Berthelot. L’anno seguente, 1850, la Feuille d’annonces d’Aoste , nei suoi Faits curieux , descrisse lo stesso abete monumentale à la base des pentes méridionales du Mont-Blanc , tra Dolonne e Pré-Saint-Didier, sur la montagne de Régné , ribadendo le osservazioni di Berthelot e l’eccezionale longevità, malgré sa magnifique végétation et sa verdoyante vieillesse . (3) Nei decenni successivi libri, almanacchi e riviste di settore ripeterono quasi meccanicamente le note del 1832; poi tacciono sull’esemplare. In una schedatura moderna risalente al 1994 compare, in località Les Golettes (1.340 m, a monte di Dolonne), un abete rosso colonnare chiamato Lo Sapeun de Corbetta (altro modo per dire Bequé, «diavolo»): altezza 28 m, circonferenza 3,36 m, diametro 1,07 m, età stimata oltre 250 anni. La chioma forma una volta di circa 12 m di diametro che, oltre a servire come sicuro riparo ad animali e persone, veniva adoperato come provvisorio fienile nel corso delle passate fienagioni (si racconta che poteva contenere 20 “balloni” di fieno) . (4) Benché nomi e area coincidano, i dati non combaciano. È possibile che l’albero osservato nel 1832 sia scomparso nella seconda metà dell’Ottocento e che la sua fama sia durata ancora per qualche decennio per copiatura di repertorio; l’esemplare attuale è un altro. Si tratta di una pianta che, all’epoca della visita di Berthelot, aveva già un’ottantina d’anni. Nulla di sorprendente, se consideriamo quanto ricordava nel 1850 la Feuille d’annonces d’Aoste : a peu de distance de ce sapin, se trouve dans la forêt de Ferré, près du col de ce nom, au vallon de l’Allée-Blanche, un mélèse qui a cinq mètres 45 centimètres de circonférence au-dessus du collet de la racine, et qui ne doit pas avoir moins de huit cents ans . Nient’altro. Purtroppo. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) S. Berthelot, Sur la longévité et l’accroissement des arbres , dicembre 1832, p. 17. (2) F. Parlatore, Viaggio alla catena del Monte Bianco e al Gran San Bernardo eseguito nell’agosto del 1849 , p. 83. (3) Edizione del 30 settembre 1850. (4) C. Letey (a cura di), Le Piante Monumentali della Valle d’Aosta , 2001, p. 28.

Dove si trova il Mont-Au? Avete mai sentito parlare del Mont-Au? È un nome curioso, quasi dimenticato, che si incontra in una cronaca giornalistica valdostana del 1° ottobre 1875. Un giornale raccontava l’impresa dell’ingegnere Ernesto Santelli e del celebre alpinista torinese professor Martino Baretti, membri delle sezioni del Club Alpino Italiano di Aosta e di Torino. Con loro c’erano tre minatori di Champdepraz: Jean Borio, caporale della miniera, Jean Gaydo e Joconde Dhérin. Insieme avevano raggiunto la vetta della pointe vierge du Mont-Au, vallée de Champdepraz . (1) Il nome Mont-Au è curioso, e compare poco nelle cronache alpine. (2) Forse perché la montagna, di altitudine moderata, non offriva rien de remarquable , e i suoi colli vicini ne sont connus que des chasseurs . (3) Ma dietro quel toponimo si nasconde una storia: probabilmente è la contrazione di Monte Acuto , una definizione che calza perfettamente alla forma appuntita di quella cuspide di serpentino che domina i valloni vicini, (4) proprio in prossimità della miniera di magnetite situata nei pressi del Lac-Gelé. (5) Il giornale del 1875 sottolineava le difficoltà dell’ascesa: Les ascensionnistes ont dû surmonter bien de sérieuses difficultés pour parvenir à la sommité . Una volta giunti in vetta, il panorama si aprì grandioso davanti ai loro occhi. Allora i pionieri piantarono una bandiera e costruirono tre hommes de pierre , (6) gli ometti di pietra che ancora oggi accompagnano i camminatori sui sentieri d’alta quota. E proprio da quel momento la cima entrò nelle guide turistiche: On en fait l’ascension en 7 h. de Champ-de-Praz et en 8 h. de Chambave . (7) Oggi quella vetta non porta più il nome di Mont-Au . È conosciuta come Mont-Avic , 3.006 metri, lungo il confine tra Chambave e Champdepraz. Una montagna che ha dato il nome a un parco naturale regionale, istituito nel 1989. Area che si estende su quasi 5.750 ettari tra la Valle di Champorcher e il vallone di Champdepraz. Più di ottant’anni dopo quella prima ascensione, nel 1957, alcuni giovani di Champdepraz salirono sulla cima, portando con loro una piccola statua della Madonna, dono della sezione CAI di Ivrea. La collocarono lassù, a protezione degli alpinisti. Così, da un toponimo poco conosciuto, il Mont-Au , siamo arrivati al Mont-Avic che conosciamo oggi: una montagna che racconta insieme l’avventura degli uomini, la bellezza della natura. Immagine di copertina: Il Mont Avic. (1) L’Echo du Val d’Aoste , 1° ottobre 1875. (2) Le Mont-Blanc , 7 marzo 1924. (3) Feuille d’Aoste , 17 maggio 1871. (4) G. Berutto - L. Fornelli, Emilius, Rosa dei Banchi, Parco del Mont Avic , collana Guide dei monti d’Italia, CAI - TCI, 2005. (5) Aoste et sa Vallée. Guides Illustrés Reynaud , p. 24. (6) Feuille d’Aoste, 6 ottobre 1875. (7) Aoste et sa Vallée. Guides Illustrés Reynaud , p. 24.

Una donna nella neve Il 6 gennaio 1930, il settimanale australiano The Recorder (Port Pirie, South Australia), riprendendo un articolo del Daily Chronicle di Londra, pubblicava un titolo che oggi colpisce per la sua semplicità drammatica: Woman’s ordeal – Spends Night in Snow (“Il calvario di una donna – Trascorre la notte nella neve”). Il testo raccontava la storia di Proserpina Debaz, una sarta valdostana, e di sua figlia di otto anni. Il marito era emigrato in Francia, come molti in quegli anni. Lei voleva raggiungerlo passando dalla Svizzera. Ma alla sua richiesta di passaporto, le autorità fasciste risposero con un secco diniego. Così Proserpina prese una decisione radicale: attraversare clandestinamente il confine. Con la bambina al seguito, si unì a un gruppo di quattordici persone. Tentavano il passaggio al Colle del Teodulo, nei pressi del Cervino. Era inverno pieno. Le condizioni meteorologiche proibitive erano una strategia: con la tormenta, le pattuglie – forse – sarebbero state meno attente. Ma due miliziani fascisti, appostati nei pressi del colle, scorsero il gruppo. E aprirono il fuoco. Proserpina cadde svenuta nella neve. Un uomo fu colpito. La bambina restò accanto alla madre, nel buio e nel gelo. Solo all’alba, i militi trovarono le due vive, ma sfinite. Le soccorsero. E poi le arrestarono. Le portarono - scrive il giornale - alla “stazione fascista più vicina” ( the Fascist police station ). E lì la cronaca si interrompe. Non sappiamo se la donna riuscì mai a raggiungere il marito, o se la bambina serbò memoria di quella notte. Non sappiamo nemmeno se i giornali locali vennero a conoscenza della vicenda, o se, più probabilmente, la ignorarono per volontà del Regime e per effetto della censura. Sappiamo solo che la loro storia, ignorata in patria, fu ripresa dalla stampa inglese e poi da quella australiana. Molto lontano dalla Valle d’Aosta. Dove non se ne scrisse. Dove le cronache informarono solo che la neve, in quei giorni, era alta un metro. (1) L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Le Mont-Blanc , 27 dicembre 1929.

Quando un intero villaggio valdostano finì in tribunale Le montagne che separano la valle di Cogne dalla Plaine di Aosta non sono soltanto confini naturali: per secoli sono state pascoli condivisi, terre di scambio ma anche di contrasti. È il caso dell’alpeggio di La Pierre (2.081 m), nei documenti chiamato La Pera , a monte di Ozein (Aymavilles), lungo il confine con la valle di Cogne. Nel medioevo i pastori di Chésallet (Sarre), legati ai nobili de Casaleto , salivano fin lassù e sfruttavano i pascoli, tanto da aver chiamato “Chésallet” quelli oltre il crinale, nella valle di Cogne. (1) Con il raffreddamento climatico del XIII secolo si stabilirono più in basso, colonizzando la zona di Cogne dove fondarono il villaggio di Épinel. Ma non smisero, mai di tornare in quota per il pascolo e il transito. Non sorprende, quindi, che nel corso del tempo e delle necessità siano nate tensioni tra le comunità vicine per lo sfruttamento degli alti pascoli. Nel 1898 la questione approdò addirittura in Pretura ad Aosta: su richiesta di alcuni abitanti di Aymavilles furono convocati tous les chefs de famille d’Épinel . L’udienza si tenne il 16 agosto per chiarire l’uso corretto dell’alpeggio. Il Pretore di Aosta stabilì che i pascoli de La Pera potevano essere utilizzati dagli abitanti di Épinel, ma solo entro i limiti dei confini comunali fissati nel 1873, dans la localité dite Tavaillon au moyen du placement de plusieurs limites très visibles et apparentes . Gli épinolens furono inoltre condannati a pagare danni e spese processuali, con il divieto di manomettere i confini segnati. (2) Oggi la situazione è ben diversa: le mandrie, molto ridotte, trovano erba sufficiente in altri pascoli della zona e nessuno di Épinel ha più motivo di recarsi a La Pera. Resta la memoria di una disputa che ricorda quanto, un tempo, ogni metro di prato fosse vitale per la sopravvivenza delle comunità alpine, e di un clima che periodicamente mutava. Condizioni che oggi hanno reso poco appetibile l’area di Tavaillon, un tempo conosciuta come Chésallet, che non offre più i prati appetibili, né le coltivazioni di secoli fa. Immagine di copertina: le zone alte di Epinel; sullo sfondo Cogne e il Prato di Sant'Orso. (1) A. M. Patrone, Liber reddituum Capituli Auguste , pp. 267-268. (2) Le Mont-Blanc , 8 luglio 1898.

A 14 ore e 15 minuti da Cogne C’era un tempo in cui i monti non erano barriere, ma ponti. Le valli non vivevano isolate come oggi potremmo credere: tra Cogne e le terre valdostane e piemontesi confinanti, i legami erano fitti, quasi naturali. Non si trattava soltanto di scambi ufficiali o rapporti feudali, ma di un movimento continuo di persone, merci e storie. Tra queste relazioni, meritano qui attenzione quelle che legavano comunità valdostane tra loro, in particolare quelle che si intrecciavano nell’angolo sud-orientale della Valle d’Aosta: Champorcher e e Cogne. Qui i potenti signori di Bard — avvocati laici del vescovo di Aosta e rappresentanti della avouerie di Cogne (1) — esercitavano il loro potere su vaste terre e pascoli, tra cui quelli di Broillot, di Peradza (nell’alto vallone dell’Urtier) e numerosi altri feudi. (2) La mappa precisa delle loro proprietà a Cogne resta incerta, ma i documenti medievali attestano il possesso di diversi diritti sulla comunità e di altre terre disseminate nella valle. (3) Attraverso la Finestra di Champorcher, naturale collegamento tra le valli di Champorcher e di Cogne, correva - e corre ancora oggi - un sentiero che permetteva contatti frequenti. E i cogneins , come testimoniano le cronache del Duecento, lo percorrevano spesso: scendevano al mercato di Bard, lavoravano nelle sue terre, talvolta vi si stabilivano. Non mancano prove della loro presenza stabile a Bard e a Donnas, dove compaiono negli atti come habitatores o addirittura come burgenses originari di Cogne. (4) Tra Duecento e Trecento troviamo nomi che oggi suonano come echi lontani: Petrus de Coigny , borghese di Donnas; Iohannes de Cogny ; Beatrix de Cognia , residente a Donnas e insieme al marito Perreto Barberio , proprietaria di un forno in paese; (5) il calzolaio Iacobus de Coignia , acquirente di un terreno; Anselmus de Cognya e suo padre, Iohannes Chalvet . (6) Oggi, percorrendo i sentieri che salgono verso la Finestra di Champorcher, è difficile immaginare quel viavai di mercanti, pastori e artigiani. Eppure, per secoli, Cogne e i paesi alle porte della Valle d’Aosta hanno vissuto non come mondi separati, ma come stanze di una stessa casa: unite da un corridoio di pietra e fatica, di amicizie e interessi, di montagne attraversate. Immagine di copertina: il cartello posto presso il municipio di Cogne, all’incrocio tra le strade che portano a Valnontey e a Lillaz. (1) J.-A. Duc, Histoire de l’Eglise d’Aoste ( HEA ), III, p. 49. (2) Nel 1365 risultava che i nobili Gontard possedevano lassù delle terre che anticamente avevano acquisito da Mathieu, figlio di Hugues de Bard. (3) HEA , II, p. 362-363. (4) J.-G. Rivolin, Uomini e terre in una signoria alpina. La castellania di Bard nel Duecento , in "Bibliothèque de l’Archivum Augustanum", XXVIII, pp. 72-73. (5) Ivi , p. 177, n. j. (6) Ivi , p. 73 e nn. 1-2.

Quella caricatura su una roccia di Cogne... Lungo l’antico tracciato della strada per Cogne, nei pressi della cava di Senaget, nel comune di Aymavilles, si incontra una parete rocciosa che un tempo conservava due elementi ben distinti, testimoniati da una fotografia dei primi del Novecento: (1) - al centro, una delle storiche incisioni fatte realizzare da César-Emmanuel Grappein (1772–1855); - sulla sinistra, un curioso disegno bianco, probabilmente tracciato con calce o vernice, che raffigura una figura umana stilizzata: braccia aperte, cappello a cilindro, e sotto i piedi una sorta di skateboard. A lato, una forma allungata sembra suggerire una miccia o una fiammata. Accanto a questi segni incisi e dipinti, la scena è completata dalla presenza di tre viaggiatori in abiti d’epoca, fotografati in sosta lungo il cammino. Il luogo si trova lungo il percorso della prima strada carrozzabile per Cogne, voluta e promossa proprio dal dottor César-Emmanuel Grappein, medico della valle e figura centrale nella storia di Cogne. La strada fu realizzata tra il 1807 e il 1834, su progetto dell’ingegnere André-Joseph Perrod. Nel suo ruolo di direttore dei lavori, Grappein fece incidere sulle rocce circostanti massime morali e citazioni filosofiche, tratte da autori come Virgilio, Ovidio, Rousseau, Condillac, Balzac e Fénelon-Solignac. Il suo intento era quello di trasformare il percorso in un itinerario non solo fisico, ma anche filosofico e riflessivo. Quelle incisioni, lette anche dai primi turisti stranieri che verso la metà dell’Ottocento cominciavano a scoprire la valle, non furono però sempre accolte favorevolmente da alcuni compaesani di Grappein. Anzi, suscitarono ostilità e sarcasmi. Grappein stesso, in uno scritto autobiografico, racconta: « I miei nemici, irritati, furiosi ed incattiviti contro le nuove carrozzabili che facevo per permettere uno sbocco a valle del minerale ferroso, scrivevano sulle rocce, che si trovano lungo le nuove strade, delle ingiurie: libelli, sarcasmi, dove la mia reputazione era crudelmente fatta a pezzi .» (2) Il disegno visibile sulla parete potrebbe dunque appartenere proprio a quella stagione polemica, databile tra il 1807 e il 1834, e rappresentare una caricatura ironica di Grappein stesso. Il cappello a cilindro, chiaro segno distintivo, e la posizione su un carretto — forse allusione al trasporto del minerale — sembrano voler deridere la sua figura pubblica. Il dettaglio della miccia può suggerire un’ironia ulteriore: come se il “carretto del progresso” fosse sul punto di esplodere, carico non solo di tensioni sociali, ma anche del carattere impaziente, impetuoso e incendiario del suo promotore. Come ricordava il dottor Auguste Argentier, successore di Grappein: « A vedere quel vecchio dal parlare ardente, con la fronte coronata di capelli bianchi, si sarebbe detto l’Etna: con la cima coperta di neve, ma la gola che vomita torrenti di fuoco .» (3) Per quanto rudimentale, quel disegno colpisce per la sua stilizzazione sorprendentemente moderna e per la capacità di concentrare, in pochi tratti, un’intera polemica storica. Un piccolo segno sulla pietra, fragile eppure duraturo, che — anche se scomparso — continua a riecheggiare tra ambizioni, conflitti e memoria. In copertina: il disegno murale, da me riprodotto su carta ispirandomi alla fotografia d’epoca citata nel testo e in nota, accanto al cappello a cilindro appartenuto al dottor Grappein, oggi esposto al Museo Minerario di Cogne. (1) La scena è documentata in una fotografia scattata probabilmente attorno al 1915, oggi conservata presso l’Archivio Fotografico della Fondazione Torino Musei. Titolo: Le rupi con iscrizioni sulla strada per Cogne. Valle di Aosta, valle di Cogne, alcuni escursionisti nei pressi di incisioni rupestri lungo la strada per Cogne. Autore: Mario Gabinio. (2) C.-E. Grappein, Mon testament: 1828-1855 ; a cura di G. Vassoney, Archivio storico dell’Associazione dei Musei di Cogne, p. 63. (3) A. Argentier, Le docteur Grappein. Esquisse biographique , in P. Malvezzi, Le val de Cogne , p. 99.