I “paradisi perduti” sulle Alpi sono realmente esistiti?

Mauro Caniggia Nicolotti • 14 novembre 2022
I “paradisi perduti” sulle Alpi sono realmente esistiti?

Recentemente mi ha colpito una curiosa notizia. 
Il 14 agosto del 2022, a 4.300 metri di altitudine, lungo la parete est del Lyskamm (catena del Monte Rosa), è stata ritrovata una marmotta mummificata. 
Analizzato poi al radiocarbonio, di quell’animale è emerso che ha vissuto in quell’area tra il 4600 e il 4500 avanti Cristo.

La scoperta si rivela molto interessante, anche perché anni prima in quella zona era stato rinvenuto, più in basso, un antico suolo scoperto dai ghiacci, la cui stratificazione ha riconsegnato dati molto importanti relativamente alla storia del clima che riguarda i millenni a noi più vicini. 
Il popolo Inuit chiama questo tipo di siti isolati con il nome di nunatak, ossia terre che emergono dal ghiaccio; in francese, invece, il termine è rognon; in Valle d'Aosta potrebbero essere i vari Envergneure, Invergneux...
In queste aree si sviluppano e vivono diverse forme di vita che possono sopravvivere ai rigori del gelo. A favorire la presenza di queste isole nel ghiaccio sono particolari condizioni quali la quota, l’esposizione a Sud e la protezione e il riscaldamento garantiti dai rilievi montuosi vicini. La combinazione di questi fattori ha creato specifiche condizioni microclimatiche tali da consentire la conservazione della vita e lo sviluppo dei suoli al di sopra dei ghiacci.(1)

A prescindere dal fatto che queste “isole di terra” possano essere state causate o meno dall’optimum climatico verificatosi tra l’8000 e il 3000 avanti Cristo, resta il fatto che quella marmotta bazzicava in quelle altissime terre, aree oggi difficilmente praticabili per quella specie animale, che si spinge al massimo fino ai 3000 metri di quota.

Questi nuovi studi e ipotesi sembrerebbero richiamare alla memoria quei “paradisi perduti” di cui le leggende alpine sono ricche. Infatti, in molti racconti popolari si narra che tra le montagne ghiacciate delle Alpi si celino qua e là alcune “valli felici”, terre dal clima mite, dolce, presso cui la natura regala buoni frutti.(2)

Chissà come si sono originate tali fantasie nell’immaginario collettivo di un tempo.

La maggior parte delle narrazioni, a dire il vero, non tratta propriamente di meravigliose valli nascoste, ma di qualcosa di molto, molto, ma molto più piccolo: sul Ruitor, montagna di accadimenti meravigliosi, pare esista uno di questi brandelli di paradiso.(3)

La narrazione valdostana racconta in particolar modo di animali che dagli alti alpeggi capita che si allontanino dal gruppo prima del rientro autunnale a valle; e finiscono per perdersi. 
Quando l’anno successivo i pastori risalgono all’alpeggio vengono attirati dal verso delle bestie, che ritrovano in ottima salute e ben pasciute, presso zone ancora più elevate, tra rocce e seracchi. 
Come erano potuti arrivare tanto in alto? E, soprattutto, come avevano fatto a resistere durante tutto l’inverno?
L’accaduto è ancora e sempre senza risposta (...). Alcuni pretendono che tra le nevi del Ruitor esista un posto dove il gelo non brucia mai l’erba: è la che i camosci vanno a pascolare in inverno.(4)

Esempi di questo genere si moltiplicano un po’ dappertutto nell’arco alpino.(5)

Chissà che quelle strisce di terra, viste come isole di vita o di sopravvivenza, non possano aver lasciato nell’immaginario collettivo quei “paradisi perduti” che si sono trasformati in relitti di ricordo... in leggende.


Nell'immagine: Le Dame di Challant viste da Saint-Vincent (Valle d'Aosta); foto non ritoccata.
(1) F. Soro, Un’isola di terra tra i ghiacci del Monte Rosa. Migliaia di anni fa c’era vita in alta quota in La Stampa, 8 novembre 2022. (2) Sonovi altre leggende svizzere e tirolesi, note ancora adesso fra gli alpigiani le quali provano come essi credano che il Paradiso terrestre si trovi nell’interno delle montagne, o mostrano alcune valli spaventevoli o certi ghiacciai che furono in altri tempi Blumlisalp, o Alpi fiorite, ove prima trovavasi il celeste giardino (...). M. Savi-Lopez, Leggende delle Alpi, p. 281. (3) A. Boccazzi-Varotto, I racconti della stalla/le conte di baou, p. 189. (4) A. Boccazzi-Varotto, I racconti della stalla/le conte di baou, pp. 189-190. (5) Il Grimm fa anche cenno di un paradiso degli animali che si troverebbe fra le rupi inaccessibili e le nevi del Mattenberg. In quel sito vedesi un circuito in mezzo al quale si trovano bellissimi camosci e stambecchi, con molti animali meravigliosi. Ogni venti anni, secondo la leggenda, è permesso ad un uomo di penetrare in quella regione, ove può uccidere venti camosci. M. Savi-Lopez, Leggende delle Alpi, p. 286.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 13 ottobre 2025
Mariette Gervasone, donna di ferro Aosta, 26 novembre 1875. Quel giorno la città si fermò. Le campane accompagnavano il corteo funebre di Maria Giovanna Colombino, vedova Gervasone, morta il giorno precedente, e le vie erano gremite come non si era mai visto. Un cronista annotava: Depuis longtemps, en effet, une bière n’avait été suivie chez nous par une foule aussi nombreuse et aussi recueillie . (1) Non era solo il lutto di una famiglia, ma quello di un’intera comunità. I poveri, per esempio, avevano perso una benefattrice generosa, la città una donna intelligente e buona, l’industria valdostana una protagonista della sua prosperità. Nos pauvres ont perdu en elle une bienfaitrice généreuse, notre ville une femme intelligente et bonne, notre industrie une personne qui contribuait puissamment à sa prospérité scriveva infatti la Feuille d’Aoste . (2) Nei giornali dell’epoca la si trova citata come Marie-Jeanne, talvolta più familiarmente come Mariette: ma era sempre lei, Maria Giovanna Colombino, vedova Gervasone, capace di guidare officine e operai in un mondo dominato dagli uomini. Fra Villeneuve e Aymavilles i suoi stabilimenti producevano oltre mille tonnellate di ghisa e quasi un migliaio di ferro l’anno grazie alla magnetite di Cogne, alimentando soprattutto la Torino industriale. Dietro questi volumi, ci sono cifre che parlano da sole. Ogni quintale di ferro era venduto a 42 lire, con ricavi complessivi nell’ordine delle centinaia di migliaia di lire annue. Ma i costi erano alti: il carbone, il minerale, i salari degli operai, i trasporti. L’equilibrio fra entrate e uscite era sottile, a volte rischioso, tanto che la stessa signora Gervasone chiedeva pubblicamente un aumento dei dazi doganali per proteggere la produzione locale dalla concorrenza straniera. (3) E non smise mai di occuparsene: ancora nel 1874, ormai vicina alla fine, attraverso il suo rappresentante Felice Paoletti acquistò oltre diecimila piante ad Aymavilles, segno di una volontà instancabile di guardare avanti. (4) Accanto alla forza dell’imprenditrice e alla sua inarrestabile operosità, emergeva - come anticipato anche la generosità della benefattrice: “i poveri di Aosta ricevevano settimanalmente pane e zuppa davanti alla porta della casa della signora Gervasone”. (5) Un gesto semplice e concreto, che spiegava la sua popolarità almeno quanto la produzione di ferro. Alla sua morte, l’eredità passò al figlio Guillaume, assistito dallo zio-avvocato Colombino, come riportavano i giornali. (6) Il funerale di Mariette, avvenuto il 26 novembre 1875, restò nella memoria come il saluto collettivo a una donna che seppe intrecciare industria e solidarietà, economia e comunità. In lei, la Valle d’Aosta aveva trovato una voce femminile forte e autorevole, capace di incidere tanto nel clangore del ferro quanto nel silenzio della carità. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Feuille d’Aoste , 1° dicembre 1875. (2) Feuille d’Aoste , 1° dicembre 1875. (3) Feuille d’Aoste , 24 settembre 1873. (4) L’Echo du Val d’Aoste , 29 maggio 1874. (5) Le Mont-Blanc , 25 gennaio 1895. (6) Feuille d’Aoste , 8 dicembre 1875.
valle
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 9 ottobre 2025
L’abbé Gorret, la “spia italiana” Nel gennaio del 1895 il giornale Le Mont-Blanc (1) pubblicava una lettera singolare arrivata da St-Martin de Clelles, piccolo villaggio francese situtato nei dintorni di Grenoble. Il mittente era un abbonato, che raccontava con calore il passaggio in quelle terre dell’ abbé Amé Gorret. Chi era? Un prete valdostano dalla tempra inconfondibile: Amé Gorret (1836-1907), l ’ ours de la montagne , alpinista, scrittore, uomo dalle maniere brusche e dal cuore generoso. Uno che si definiva domicilié en route , perché i vescovi lo spostavano di continuo, incapaci di incasellarlo. Ebbene, i suoi esordi a Clelles non furono facili. Nos gros bonnets, la mairie compris, l’appelaient l’espion italien , scrive il testimone. Lo guardavano con sospetto, quasi fosse una spia mandata oltreconfine in anni in cui i rapporti tra Francia e Italia erano tutto fuorché sereni. Ma il reverendo – ce colosse de Curé – aveva un dono: la franchezza. Con la sua voce tonante, i modi popolari, la statura erculea e il cuore grande, conquistò ben presto tutti. In poco tempo – racconta sempre la lettera – riportò all’ovile beaucoup de brebis égarées . Le madri lo chiamavano la Providence . “Quante benedizioni si raccoglievano al suo passaggio! E bisognava vederlo mentre si chinava, facendosi piccolo piccolo, per porgere la sua larga mano, dentro la quale i bambini nascondevano tutta intera la loro manina paffuta”. Il cronista insiste: Combien d’enfants agonisants n’a-t-il pas rendu à la vie? “Gli venivano affidati i piccoli malati e, con pochi rimedi che aveva a disposizione, egli li restituiva dopo poche ore pieni di vita e di salute». Dietro la penna di quell’abbonato che si firmava T.G. si intravede la gratitudine semplice di un paese che aveva prima sospettato e poi amato quel prete singolare, tanto da concludere che il suo nome y sera à jamais béni. Il suo carattere caustico, la sua ironia, il suo amore per la montagna e la libertà lo resero una figura quasi leggendaria. Dall’amicizia con Vittorio Emanuele II alle polemiche sulla caccia o sulla stampa valdostana, fino alle avventure al Cervino, ovunque andasse seminava aneddoti, risate, e qualche scandalo. (2) Eppure, a Clelles come ad Ayas, ciò che restava era soprattutto il ricordo di una voce franca e di una mano larga, capace di sollevare tanto i corpi quanto gli spiriti. Son imposante taille herculéenne lui attirait toutes les sympathies … L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Edizione del 25 gennaio. (2) M. Caniggia Nicolotti, Sacerdoti saggi, sagaci e spiritosi. Preti valdostani di un tempo , pp. 47-68.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 6 ottobre 2025
La tratta dei bianchi in Valle d’Aosta C’è una memoria che riaffiora sfogliando i vecchi giornali ingialliti della Valle d’Aosta, un’eco lontana che ci parla di bambini e adolescenti strappati alle loro case. Era chiamata “la tratta dei bianchi”: una ferita che attraversa le pagine tra Ottocento e Novecento. Nel marzo del 1872 L’Écho du Val d’Aoste racconta la vicenda di un bambino torinese di appena sei anni, uno spazzacamino, brutalmente trattato dal proprio padrone. (1) Non era un caso isolato: i ramoneurs valdostani partivano ogni inverno verso le grandi città, portando con sé la miseria delle famiglie, e più d’uno aveva subito maltrattamenti. Il giornale puntava il dito contro quella forma di sfruttamento che già allora ricordava da vicino l’infame commercio della tratta. Passano quasi trent’anni e la cronaca si fa ancora più cupa. Il 12 maggio 1900 due individui vengono arrestati ad Aosta: stavano per salire sul treno con una dozzina di bambini tra i nove e i sedici anni, accaparés de leurs parents . Il destino era segnato: alcuni sarebbero diventati spazzacamini, altri sarebbero finiti in una vetreria di Manage, in Belgio, a contatto con il vetro fuso. Il giornale denunciava la leggerezza dei genitori che, per un gruzzolo di monete, avevano affidato i figli a sconosciuti pur di sfuggire alla miseria. (2) Il Tribunale di Aosta, chiamato a giudicare, assolse gli imputati. Ma la Corte d’Appello di Torino riformò quel verdetto con una condanna: Léon Chabeau, impiegato della vetreria, e Léon Grand, capo ramoneur , furono riconosciuti colpevoli di reclutamento illegale. I due avevano stipulato veri e propri contratti con i genitori, promettendo salari dai 50 ai 200 franchi l’anno. La pena fu di 25 giorni di reclusione e 416 lire di ammenda; Grand venne giudicato in contumacia. In quei giorni, un’altra condanna colpì un valdostano: aveva tentato di far espatriare un quindicenne e un diciottenne per portarli a lavorare in una cristalleria. Assolto in prima istanza, fu poi condannato a due mesi di prigione e a 1.000 lire di ammenda. (3) Il 31 maggio 1901, dalle colonne di Jacques Bonhomme , comparve un titolo eloquente: Un infâme trafic de chair humaine . Vi si raccontava dell’impegno di un comitato piemontese di filantropi che cercava di censire i casi di emigrazione clandestina di giovani italiani verso Francia e Belgio. Talvolta, annotava il giornale, queste partenze avvenivano con la connivenza di qualche funzionario pubblico o amministratore locale, bollati come immondes vampires, avides d’or et de sang . La cronaca giornalistica del 1905 ci porta oltre i confini regionali. Il Tribunale di Cherbourg, in Normandia, condannò due “reclutatori” a tre anni di prigione e a 5000 franchi di ammenda per aver assoldato quattro giovani ragazze tra i 18 e i 20 anni da far emigrare a San Francisco. Dovevano essere impiegate come cameriere con salari di 100 franchi al mese: la polizia scoprì invece che erano destinate a una casa di prostituzione. (4) Non si parlava più soltanto di bambini mandati a lavorare lontano, ma di giovani ragazze ingannate da procacciatori francesi e avviate alla prostituzione. E a questo inganno non sfuggirono alcune valdostane. (5) Cosiddetti “industriali francesi” percorrevano la Valle d’Aosta, adescando giovani ragazze per portarle in Francia: là, invece del lavoro in grandi manifatture promesso, trovavano il ricatto e la minaccia della prostituzione. “Dunque, padri e madri di famiglia, siate in guardia contro certains agents d’émigration ”, ammoniva un giornale valdostano. Oggi, da noi, la “tratta dei bianchi” è soltanto un brutto ricordo. Ma non ovunque è così: in troppi angoli del mondo, la miseria continua a vendere i suoi figli, e la dignità umana resta ancora merce di scambio. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) L’Echo du Val d’Aoste , 29 marzo 1872. (2) Le Duché d’Aoste , 16 maggio 1900. (3) Le Duché d’Aoste , 12 settembre 1900. (4) L’Union Valdôtaine , 18 maggio 1905. (5) L’Union Valdôtaine , 20 novembre 1905.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 2 ottobre 2025
Una parrocchia valdostana in Brasil e Nel 1877 alcune famiglie valdostane si stabilirono nello Stato del Paraná, in Brasile, nella zona di Campo Comprido–Mossunguê, a pochi chilometri dal centro di Curitiba. Tra loro si ricordano Pierre Nicco (del fu Jean), Grat Nicco di Donnas, Juglair e Martignèn. La colonia si sviluppò rapidamente. La fede di quei valdostani, devoti al patrono della Valle d’Aosta, fece sì che già nel 1887 giungesse a Curitiba un’immagine di San Grato, fatto che precedette di poco la costruzione di una cappella nel cuore della colonia. Questa, edificata nel 1889 in legno semplice secondo lo stile rurale, fu intitolata ai santi Grato e Orso, figure care alla devozione valdostana. Nel frattempo gli emigrati riuscirono a trarre buoni frutti dal lavoro agricolo, al punto che nel 1923 il giornale valdostano Le Duché d’Aoste descriveva la colonia come florissa nt e , prospera, e sottolineava che quelle famiglie avevano fait fortune . Con l’espansione urbana, Campo Comprido e Mossunguê divennero quartieri della città di Curitiba, e l’urbanizzazione si rifletté anche nell’odonomastica. La cappella sorse in Rua Francisco Juglair, cognome di uno dei valdostani che diedero lustro alla colonia. Nel 1915 fu trasferita in Rua Grã Nicco, dove ancora oggi accoglie i fedeli. In quell’occasione l’immagine di San Grato, portata a Curitiba nel 1887, trovò la sua collocazione definitiva. Dal 2000 l’edificio è parrocchia autonoma: la Paróquia São Grato , tuttora l’unica in Brasile a portare questo titolo. Ogni anno, il 15 settembre, la comunità di Mossunguê rinnova la tradizione celebrando il patrono San Grato, come fecero i pionieri valdostani quasi 150 anni fa. (1) Il quartiere conserva l’impronta valdostana anche nei nomi delle sue vie. Oltre a Rua Francisco Juglair e Rua Grã Nicco, si trovano strade dedicate a membri della famiglia Nicco: João Nicco, Pedro Nicco, Anselmo Nicco, Dominigas Nicco, José Nicco, Amadeu Nicco. Secondo la stampa locale, fu proprio un Nicco a donare il terreno sul quale sorse la chiesa. Quando nel 1923 padre Chenuil, superiore generale dei missionari scalabriniani, fece una visita in loco, ebbe un entretien proprio con i Nicco (Pierre, figlio del fu Jean, e Grat) a cui i cittadini dedicarono poi le vie della zona; in quel momento ces braves Valdôtains erano déjà avancés en âge . (2) Dal 2023 la cappella storica, riconosciuta come Unità di Interesse di Preservazione, è stata inserita dal Comune di Curitiba nel programma Rosto da Cidade , che prevede il restauro e la valorizzazione dell’edificio, ulteriore segno dell’importanza di questo lascito valdostano in Brasile. (3) Un dettaglio curioso: all’interno della parrocchia di Mossunguê si conserva una statua policroma di San Grato che riprende la stessa iconografia di quella collocata sulla facciata della cattedrale di Aosta. Le due immagini risultano quasi identiche, seppure speculari, a conferma di un legame che attraversa i secoli e l’oceano. L'immagine di copertina, creata con l'ausilio dell'intelligenza artificiale, ha valore puramente evocativo, pur rispecchiando in maniera quasi fedele le statue originali nelle fattezze, nelle posizioni, nei materiali, nei colori e nelle forme. (1) https://arquidiocesedecuritiba.org.br/paroquia-sao-grato-no-mossungue-celebra-seu-padroeiro-neste-dia-15-09/ (2) Le Duché d’Aoste , 11 aprile 1923. (3) https://www.curitiba.pr.gov.br/noticias/iluminacao-cenica-realca-historia-da-capela-sao-grato-refugio-de-simplicidade-no-mossungue/76928
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 25 settembre 2025
La fuga miracolosa degli ostaggi di Aosta Nel giugno del 1691 la Valle d’Aosta fu travolta dall’invasione delle truppe francesi guidate dal marchese de la Hoguette. Per alcune settimane seimila soldati dilagarono nella regione, lasciando dietro di sé saccheggi, devastazioni, incendi, ponti distrutti, luoghi sacri profanati e persino il tentativo di strappare i tesori alla cattedrale di Aosta. Ma, ingannati dalla presenza del giglio scolpito su alcuni arredi e dalla tradizione che voleva il Duomo restaurato da un antico re dei Franchi, Gontrano, si dissuasero dall’oltraggio, pur non rinunciando al resto. Subito giunse la loro richiesta: una contribution de guerre di 300.000 livres . Dopo trattative, la cifra scese a 200.000, ma rimaneva impossibile. Si consegnarono allora sacchi di grano, bestiame, vino, denaro, preziosi. Intanto i soldati occupavano case e conventi. Nonostante i sacrifici, la somma non fu raccolta. Per garanzia i francesi pretesero sei ostaggi: il canonico Jean-Georges De Tiller e Joseph Tissioret per il clero; il barone François-Gaspard d’Avise e François-Jérôme Brunel per la nobiltà; il consigliere Jean-Joseph Lyboz e l’avvocato Jean-François Ferrod per la borghesia. Condotti a Chambéry, furono rinchiusi nelle prigioni del castello. Là, trattati con durezza e ormai certi che il riscatto non sarebbe più stato pagato, riuscirono a guadagnarsi la fiducia di un giovane soldato francese, Nicolas Champlot de Montargis. Con promesse e forse qualche lacrima, ottennero il suo aiuto. Una notte, il soldato li fece calare dall’alto dell’edificio con una corda. Sperduti nell’oscurità, senza guide, vagarono con Champlot tra campi e villaggi, travestiti da carbonai, (1) implorando la protezione della Vierge e facendo voto. Fu un lungo viaggio di ventiquattro giorni: dalla prigionia di Chambéry circumnavigarono le falde del Monte Bianco, raggiunsero il Colle del Gran San Bernardo e infine rientrarono ad Aosta il 23 dicembre 1691. I fuggitivi, insieme al loro salvatore, furono accolti da un’esplosione di gioia popolare. In solenne processione si recarono alla cappella di Notre-Dame-de-Pitié, oltre il Pont-Suaz (Charvensod), per offrire un ex-voto raffigurante la loro liberazione. Quel quadro, rifatto nel 1837, si trova ancora oggi nella cappella. Nicolas Champlot ricevette un vitalizio e si stabilì in Valle d’Aosta, dove fu accolto come un concittadino. Morì nel 1744. Suo figlio divenne parroco a Sainte-Marie-Magdeleine di Gressan e si spense nel 1812: (2) segno che da quell’avventura nacque un legame destinato a durare ben oltre la fuga miracolosa. Fu un’avventura intensa. Sospesa tra la crudeltà della guerra e la forza della devozione, tra il coraggio degli uomini e il segno della protezione divina. Un'importante pagina di storia valdostana. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. ( 1) L’Indépendant , 22 aprile 1875. (2) J.-A. Duc, Histoire de l’Eglise d’Aoste , VII, pp. 426-437.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 22 settembre 2025
Il “Sindaco di legno” in Valle d’Aosta Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, la stampa valdostana si accese attorno a una figura singolare e beffarda: il syndic de bois , il “sindaco di legno”. L’espressione, nata come satira politica, metteva in luce le lacerazioni delle comunità locali, dove le elezioni comunali si trasformavano spesso in scontri tra famiglie, villaggi e soprattutto tra clericali e liberali. Già nel 1893 Le Valdôtain , giornale cattolico moderato, scherzava scrivendo che in un certo Comune sarebbe stato utile eleggere un “sindaco di legno”, più imparziale e meno incline alle “gelosie di partito”. Non una persona scelta dalla cosiddetta opinion publique . Quest’ultima era invece fatta da interessi privati: prendeva un uomo, lo vestiva a nuovo, lo lucidava, lo trasformava di tutto punto e lo conduceva ad Aosta pour lui montrer où se trouve la Sous-Préfecture . (1) Un sindaco impersonale, insomma, che non offendesse nessuno: “di paglia o di legno, basta che non lo si incendi subito”… Molti anni dopo, la polemica venne ripresa con toni ancora più accesi dal giornale anticlericale Le Mont-Blanc . Nel dicembre 1910 un gruppo che si firmava “del partito liberale” propose di affidare gli affari comunali a un sindaco fittizio, immobile come una statua, che non perdesse tempo, come sovente accade, a frequentare le osterie con il suo seguito. “Almeno” – scrivevano con sarcasmo – “un sindaco di legno farebbe risparmiare, salvo la spesa per lo scultore, ovviamente”. E, in un crescendo dissacrante, suggerivano perfino di collocarlo in chiesa, accanto al grande crocifisso, in un’incredibile “collaborazione” simbolica che – dicevano – avrebbe attratto ancora più bigots . (2) La provocazione non rimase senza risposta. Qualche giorno dopo, una lettera firmata da un gruppo di donne cattoliche (forse autentica, forse costruita dal giornale stesso) difese il crocifisso come emblema sacro della Redenzione, bollando la trovata del sindaco di legno come un’offesa alla dignità. (3) La disputa si accese ulteriormente quando un giovane consigliere comunale valdostano scrisse al giornale: i lettori – ironizzava – ne avevano ormai les boîtes pleines di sindaci di legno. Quanti ce n’erano già nella Valle? E di chi la colpa? Forse di quegli elettori pronti a vendersi per un bicchiere di vino? Il giovane rivendicava con orgoglio che, almeno nel suo Comune, il sindaco era stato scelto bene: lontano dal profumo dell’incenso e ancor più lontano dall’essere “piazzato accanto al crocifisso”. Perché – concludeva con una punta di moralismo – le Christ était pur, innocent, ennemi de l’ivrognerie . (4) E oggi? Oggi le cose sono cambiate e, al di là della satira politica e dissacrante appena ricordata, sappiamo che i nostri sindaci valdostani, pur tra le mille difficoltà della società contemporanea, operano per il bene delle loro comunità. Al massimo, i “sindaci di legno” potrebbero diventare curiosi soggetti d’artigianato da inventare e mostrare alla Fiera di Sant’Orso… ma, in fondo, meglio di no. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) Edizione del 24 febbraio 1893. (2) Edizione del 23 dicembre 1910. (3) Le Mont-Blanc , 6 gennaio 1911. (4) Edizione del 3 marzo 1911.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 18 settembre 2025
I draghi sui tetti di Aosta Le riparazioni fatte per la distribuzione dell’acqua nei diversi quartieri della città, eseguite alle soglie dell’inverno 1860, furono accolte con favore dai cittadini di Aosta. L’acqua sarebbe stata distribuita da fontane a getto collocate a distanze convenienti, e quando il freddo avrebbe cominciato a farsi sentire, chiudendo le chiuse – e con accorgimenti che evitassero alle acque di tracimare e ristagnare – si sarebbero finalmente liberate le strade da quell’ammasso d’acqua che troppo spesso le trasformava in lastre di ghiaccio. Tuttavia, restava ancora – assicurava un giornale dell’epoca (1) – un miglioramento da compiere: la soppressione, il più presto possibile, delle gargolle a testa di drago ( gargouilles à tête de dragon ) che riversavano a cascata tutta l’acqua dei tetti. Pericolose, potevano provocare incidenti: quelque chute ou au moins quelque glissade (qualche caduta o almeno qualche scivolata). Si sarebbe potuto rimediare a questo inconveniente, suggeriva ancora il cronista, facendo stabilire delle condotte dalle case, soprattutto quelle che costeggiavano le vie principali, convogliando l’acqua dalle grondaie dei tetti in tubi che, scendendo lungo i muri, sarebbero sboccati in piccoli condotti sotterranei, uniti poi alle fogne. Nous savons bien qu’une semblable réparation ne peut se faire en un seul coup; mais nous savons aussi que la dépense supportée par les propriétaires des maisons ne sera jamais supérieure à celle qu’ils paient aujourd’hui . (2) Un’ultima osservazione riguardava la piazza Carlo Alberto, l’attuale piazza Chanoux: qui, durante le grandi piene, il canale che correva lungo il lato meridionale della piazza si gonfiava fino a diventare une rivière infranchissable , un fiume inattraversabile. Il rischio era che la corrente travolgesse i ponticelli che permettevano di superarlo, lasciando i cittadini senza passaggi sicuri. La proposta era semplice: disporre lastre di pietra molto semplici ma solide, sulle quali passare senza pericolo tutte le volte che l’acqua traboccava. Oggi quasi tutto scorre nascosto sotto l’asfalto, ma basta osservare certe vie, aprire le cronache dell’epoca o guardare una vecchia cartolina per ritrovare quel gorgoglio che un tempo dava voce ad Aosta. Immagine di copertina: Piazza Chanoux e una ponteille (a destra in basso); cartolina d'epoca. (1) L’Indépendant , 4 dicembre 1860. (2) “Sappiamo bene che una simile riparazione non può compiersi in un solo colpo; ma sappiamo anche che la spesa sostenuta dai proprietari delle case non sarà mai superiore a quella che essi pagano oggi”.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 15 settembre 2025
Aosta, la Roma delle Alpi Passeggiare per Aosta è come sfogliare un manuale di archeologia senza sfogliare nulla: basta alzare lo sguardo e ci si imbatte in un arco onorario, una porta monumentale, le mura, il teatro, il criptoportico. Pietre romane che non raccontano solo storie lontane, ma che hanno dato alla città un soprannome che ancora oggi risuona familiare: la Roma delle Alpi . Ma quando nasce davvero questo appellativo? E perché? Frugando tra le pagine di giornali ottocenteschi, la più antica definizione che sono riuscito a scovare risale al 1850. (1) Ma attenzione: non si parlava ancora di Roma delle Alpi , bensì di Rome du Piémont . E il Piemonte, in quell’epoca, non era soltanto l’idea geografica che abbiamo oggi: era anche il titolo politico del cuore del Regno di Sardegna, lo Stato sabaudo che teneva insieme il Piemonte, la Savoia, la Liguria e, naturalmente, la Valle d’Aosta. L’Italia unita non esisteva ancora, e nemmeno il concetto di "Alpi" come marchio identitario europeo. Dire 'Roma del Piemonte' significava, in fondo, inscrivere l’antica Augusta Praetoria Salassorum nel quadro sabaudo, come capitale simbolica di un’eredità gloriosa. Qualcosa cambiò tra Ottocento e Novecento. Non è solo il tempo del giovane stato unitario italiano, ma è anche il tempo delle prime guide turistiche illustrate, dei viaggiatori che si spostano per cultura e piacere, non solo per necessità. È lì che comincia a circolare con più forza l’immagine di Aosta come Roma delle Alpi : un modo nuovo, più ampio, di situarla non in un contesto politico, ma geografico, quasi naturale. La prima traccia certa che ho trovato risale al 1901. (2) Forse ce ne sono di precedenti, ma da quel momento l’espressione prende piede, fino a diventare quasi un marchio. Poi arriva il fascismo, e il nuovo epiteto trova terreno fertilissimo. Il regime esaltava la romanità come mito fondante della nazione, dell’impero: monumenti restaurati, architettura e retorica imperiale, celebrazioni. Aosta, con la sua densità di vestigia, diventa il laboratorio perfetto... anche per combattere il suo spirito autonomista e la sua francofonia. La Roma delle Alpi non è più solo un modo di dire, ma un titolo che entra nei discorsi ufficiali, nei manifesti, nelle guide, nei discorsi celebrativi. Oggi quell’appellativo è diventato un titolo culturale a pieno diritto. Dopo essere stato strumentalizzato in epoca fascista come emblema di romanità imposta, ha ritrovato il senso che aveva avuto nell’Ottocento: non più bandiera politica, ma marchio turistico e identitario, capace — con la forza delle sue pietre — di richiamare viaggiatori e curiosi da ogni parte del mondo. L'immagine di copertina, creata dall'intelligenza artificiale, è solo evocativa. (1) La Ville d’Aoste a été nommée la Rome du Piémont, à cause de ses antiquités : L. Pléoz, Le Garde National soit Almanach du Duché d’Aoste pour l’an 1850 , p. 68. (2) L’Union Valdôtaine , 29 novembre 1901.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 13 settembre 2025
13/09/1945 – 13/09/2025 Chi mi legge e conosce sa quanto profonda sia la mia passione per la storia e per le tradizioni valdostane. Oggi ricordiamo l’ Union Valdôtaine , che compie ottant’anni dalla sua fondazione. Per farlo, ho scelto di lasciarmi ispirare da un giornale dell’epoca, L’Union Valdôtaine del 15 dicembre 1945. “La Valle d’Aosta, lungo i secoli, ha sempre custodito la nostalgia delle proprie radici. Un sentimento che riaffiorava con forza ogni volta che pressioni esterne tentavano di soffocare la sua identità. Già dall’Ottocento il nodo più sensibile era la lingua francese, difesa con tenacia da generazioni di valdostani contro le spinte uniformatrici dello Stato. A quella battaglia se ne affiancarono altre: la richiesta di decentralizzare i servizi, mantenere le istituzioni locali, proteggere tutto ciò che rappresentava la specificità culturale e civile della nostra Valle. Le promesse di Roma restarono spesso lettera morta, e la fiducia nelle parole del governo venne meno. Poi arrivò il fascismo. Anche allora furono promessi rispetto e considerazione, ma la realtà fu una persecuzione dura, umiliante, che cercò di spegnere la nostra voce. Eppure il giunco valdostano ( le roseau valdôtain ) si piegò, senza mai spezzarsi. Così, quando la libertà tornò a far capolino, un gruppo clandestino fedele alle tradizioni uscì dall’ombra e devint légion .” In questo clima, segnato da lotte e speranze, il 13 settembre 1945 nacque l’ Union Valdôtaine , riconosciuta poco dopo dalle Autorità Alleate. Non più un movimento clandestino, ma un’associazione con il suo posto al sole, chiamata a essere al tempo stesso muro di difesa e forza di propulsione verso il futuro. Il suo appello era chiaro: unirsi per difendere tradizioni, diritti, cultura; lavorare per elevare la vita morale e sociale della comunità valdostana. Non un ritorno nostalgico, ma un passo deciso verso una ricostruzione che non poteva prescindere dall’identità. Collocata in quel contesto, la fondazione dell’ Union Valdôtaine rappresentò uno dei passaggi significativi della storia politica valdostana del secondo dopoguerra: da associazione culturale e identitaria a movimento politico, realtà che accompagna la vita pubblica della Valle d’Aosta fino a oggi. ---------- 13/09/1945 – 13/09/2025 Ceux qui me lisent et me connaissent savent combien ma passion pour l’histoire et les traditions valdôtaines est profonde. Aujourd’hui, nous nous souvenons de l’Union Valdôtaine, fondée il y a quatre-vingts ans. Pour le faire, j’ai choisi de m’inspirer d’un journal de l’époque, L’Union Valdôtaine du 15 décembre 1945. « La Vallée d’Aoste, au fil des siècles, a toujours gardé la nostalgie de ses racines. Un sentiment qui refaisait surface avec force chaque fois que des pressions extérieures tentaient d’étouffer son identité. Dès le XIXe siècle, la question la plus sensible fut la langue française, défendue avec ténacité par des générations de Valdôtains contre les poussées uniformisatrices de l’État. À ce combat vinrent s’ajouter d’autres : la demande de décentraliser les services, de maintenir les institutions locales, de protéger tout ce qui représentait la spécificité culturelle et civile de notre Vallée. Les promesses de Rome restèrent souvent lettre morte, et la confiance dans la parole du gouvernement s’en trouva ébranlée. Puis vint le fascisme. Là encore, on promit respect et considération, mais la réalité fut une persécution dure, humiliante, qui tenta d’éteindre notre voix. Pourtant, le roseau valdôtain plia, sans jamais se rompre. Ainsi, quand la liberté fit de nouveau son apparition, un groupe clandestin fidèle aux traditions sortit de l’ombre et devint légion. » Dans ce climat, marqué par les luttes et les espérances, naquit le 13 septembre 1945 l’Union Valdôtaine, reconnue peu après par les Autorités Alliées. Elle n’était plus un mouvement clandestin, mais une association ayant trouvé sa place au soleil, appelée à être à la fois un mur de défense et une force de propulsion vers l’avenir. Son appel était clair : s’unir pour défendre traditions, droits, culture ; travailler à l’élévation morale et sociale de la communauté valdôtaine. Non pas un retour nostalgique, mais un pas décidé vers une reconstruction qui ne pouvait pas se faire sans identité. Placée dans ce contexte, la fondation de l’Union Valdôtaine représente l’un des moments significatifs de l’histoire politique valdôtaine de l’après-guerre : d’association culturelle et identitaire, elle devint mouvement politique, une réalité qui accompagne la vie publique de la Vallée d’Aoste jusqu’à aujourd’hui.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 11 settembre 2025
Tutte le Aosta del mondo Provate a immaginare che il nome Aosta non appartenga solo alla nostra città alpina, con le sue mura romane e l’Arco di Augusto. Immaginate che quel nome abbia viaggiato lontano, si sia trasformato in Aoste, Aouste, Valdosta, lasciando tracce in borghi francesi, in sogni coloniali e persino sotto il sole della Georgia americana. È la storia sorprendente di un filo che parte da Roma e ancora oggi lega luoghi distanti. Tutto nasce dal latino Augusta , titolo imperiale che i Romani diedero a città nuove o rifondate in onore dell’imperatore. Così, oltre alla nostra Augusta Praetoria Salassorum , ritroviamo Aoste , nell’Isère, piccolo borgo francese che conserva tracce gallo-romane. Più a nord, nelle Ardenne, sorge Aouste , villaggio di campi e boschi con una chiesa medievale fortificata dedicata a Saint-Rémi. E ancora, nella Drôme, Aouste-sur-Sye , un alveare prealpino di case chiare dai tetti rosati dalle quali emerge un bel campanile. Ma la storia non si ferma qui. Nel 1940, durante la breve stagione coloniale italiana, fu annunciata persino un’“ Aosta d’Etiopia ”: un centro agricolo da fondare nell’Harrarino, dedicato al Duca d’Aosta viceré e alla nostra città. Ne parlarono i giornali, si ipotizzò persino un gonfalone da inviare dall’Italia, ma il progetto rimase lettera morta allo scoppio della guerra. E infine, come in un gioco di rimandi inattesi, attraversiamo l’Atlantico. Negli Stati Uniti, in Georgia, esiste Valdosta , città di oltre 50.000 abitanti. Il suo nome deriva da “Valle d’Aosta”, appellativo che un governatore diede alla sua piantagione nell’Ottocento. Lì, tra magnolie e clima subtropicale, sopravvive l’eco lontanissima della nostra Valle alpina. Ecco allora la piccola famiglia delle Aosta del mondo. Ognuna con il suo carattere, le sue storie e i suoi paesaggi. Sarebbe bello farle incontrare tutte, magari in un gemellaggio o una grande festa, sotto lo stesso nome antico che ancora oggi ci accomuna.