La pietra del vescovo
Ci fu un tempo in cui, ai piedi della montagna dell’Arpisson, sorgeva un grosso villaggio da tutti chiamato Croix poiché si trovava lungo un crocicchio di strade importanti che attraversavano la valle di Cogne.
Gli abitanti di quel borgo pacifico, adagiato tra le pieghe di una radura, vivevano mollemente la loro quotidianità tra la poca agricoltura strappata alle montagne, la caccia, la pesca e, soprattutto, un fiorente allevamento.
In realtà, qualche preoccupazione l’avevano anch’essi, dato che a nord dell’abitato si ergeva un mammellone che da un po’ di tempo sembrava volersi spostare, quasi intendesse provare se a valle si stava meglio.
Ogni giorno, infatti, una o più pietre si staccavano e rotolavano giù dall’altura fino a sfiorare qualche tetto. Tantoché, oramai, quello che un tempo era un verde e placido panettone erboso, sembrava sempre più una desolata ed instabile pietraia.
Gli abitanti avevano fatto l’abitudine a quelle rare, brevi e innocue pioggerelline di sassolini.
Fino a quando, una mattina, la cosa non solo iniziò a farsi più insistente, ma i sassi cominciarono ad avvicinarsi maggiormente alle case. Alcuni di essi ruppero qualche vetro, altri scheggiarono molti camini; uno, addirittura, colpì in fronte il povero fabbro del villaggio che, spaventato, cominciò a brandire il suo martello come fosse una spada. Lo roteava intorno a sé come per cercare di colpire la frammentazione di quelle pietre che scendevano come incessante pioggia.
Improvvisamente, però, tutto si placò quasi il tempo di permettere agli abitanti di abbandonare le loro case, gli orti e le varie attività al fine di rifugiarsi a qualche distanza dal villaggio.
Dal gran prato di La Còr, dove si erano tutti messi in salvo, si poteva osservare un paesaggio orribile. Tutt’intorno il Sole abbagliava nel cielo azzurro di quella bella estate e i prati e i boschi verdeggiavano smaglianti, ma sopra il villaggio incombeva, invece, una nera nuvola minacciosa alimentata da saette e venti elettrici. Il terrore rapì tutta quella povera gente che si sentiva impotente, confusa, terrorizzata.
“E’ opera di forze oscure, questa”, disse la vecchia saggia del villaggio.
“Tutti in ginocchio a pregare Nostro Signore! Forza!” ordinò senza indugio. Ma niente. Non c’era nulla da fare, le preghiere di tutti non sembravano sortire effetti su quella tempesta minacciosa che sembrava pronta da un momento all’altro a far scaricare tutta la montagna su quel povero villaggio.
La disperazione portò, allora, un giovane a reagire a quell’apocalisse che sembrava aver immobilizzato e ipnotizzato tutti.
Il ragazzo, infatti, decise di scendere lesto ad Aosta per avvertire il vescovo, pensando che questi avrebbe potuto pregare il Signore contro quelle forze maligne.
Il vescovo Eriberto accettò la missione e, dopo un faticoso e scomodo viaggio lungo la vallata di Cogne (allora impervia e priva di strada di collegamento con la piana e la città), salì finalmente a Croix.
Tutti speravano in lui, dato che l’intera comunità valdostana lo stimava per la sua bontà e intraprendenza. Era stato lui, infatti, a far rivivere le antiche tradizioni religiose e ad intercedere in prima persona con il Papa per aiutare i canonici della collegiata di Sant’Orso a fondare la loro comunità agostiniana in Aosta.
Sia come sia, il vescovo raggiunse subito la base della montagna e posò un ginocchio su di una grande pietra, poi cominciò a supplicare Dio a lungo; dietro di lui si era radunato in preghiera l’intera popolazione del villaggio.
Passarono ore e ore di intensa supplica.
Il silenzio di quei terribili momenti era rotto solo dall’unisono rimbombo delle litanie che sembravano progressivamente attutire il fragore dei fulmini e lo sferzare violento di quei venti magnetici che coronavano quel lembo di cielo sopra il villaggio.
Quando, ad un certo punto e nello stupore generale, la nuvola scomparve completamente come risucchiata nel nulla.
Ma non era ancora finita...
Quel che restava del mammellone franò immediatamente in basso tra le urla e il fuggi fuggi generale.
Le pietre rotolarono a valle come una carica di tori imbizzarriti, abbattendo alberi e divorando prati, ma fortunatamente si fermarono a pochi centimetri dal vescovo che, nel frattempo, non aveva mosso minimamente alcun muscolo, intento com’era nella preghiera.
Quando il prelato finalmente si rialzò, tutti i fedeli lo raggiunsero e lo circondarono di affetto. Frammezzo a quella gioia, non poterono fare a meno di notare che il ginocchio di Eriberto, sollevandosi dalla pietra su cui era appoggiato, aveva lasciato una impronta. Orma scavata nella roccia come se questa si fosse modellata sotto il peso del vescovo.
Comunque sia, il villaggio era finalmente salvo.
Fu così che, per ringraziare il loro pastore, gli abitanti decisero di costruire una bella e comoda casa in paese: un’abitazione che poteva ospitarlo tutte le volte che questi saliva a Cogne.
Quella struttura fu innalzata in poco tempo e a pochi passi dal villaggio.
La casa, inutile dirlo, diventò subito il vanto della vallata e fu chiamata da tutti “Tour d’Erbert” (“Torre di Eriberto”).
Con il passare del tempo quel nome si unì in uno solo come una parola nuova: “Tarembertus”, poi “Tarambel”; molti oggi la chiamano semplicemente “Tòr de Mougne”, ossia la “Torre di Magno”, indicando così quanto Eriberto fosse stato Grande nella sua azione diretta a chiedere a Dio di voler fermare il Maligno. Quest’ultimo, infatti, aveva creato tutto quel trambusto solo perché non poteva sopportare che quel villaggio vivesse placido nel rispetto delle regole della fede cristiana.
Con il tempo, però, gli abitanti decisero di spostarsi poco più ad oriente, in una zona dove la terra si rivelò essere maggiormente fertile e adatta ad ospitare mulini, nuovi tipi di lavori e di colture. Proprio là fondarono l’attuale villaggio di Epinel che, in ricordo del vecchio nome di Croix, fu suddiviso in quattro cantoni (Cuaz, Grange, Tobers e Bordon) posti lungo un nuovo grande incrocio di strade.
Le dimore dell’antico abitato oggi non esistono più a Croix, poiché nei secoli esse si sono consumate lentamente trasformandosi, infine, in polvere del tempo.
Riuscì a resistere, invece, la torre.
Non a caso era sta fatta per durare a lungo e risultare forte e protettiva come il suo proprietario.
In ultimo, si ergono ancora, poco più in alto di quel maniero, ammassi disordinati di scure pietre provenienti da quello strano crollo e, poco sotto quei cumuli ormai invasi dalla vegetazione, persevera una grande pietra.
Un masso come tanti che ospita, però, tra le sue venature una sorta di vuoto a forma di coppella. Si tratta proprio di quella che si creò in quel giorno difficile con la sola forza del corpo e della fede di Eriberto che colà aveva appoggiato un suo ginocchio nell’atto di quell’intensa preghiera a Dio: la cosiddetta “pierre de l’Évêque”.
Oggi, gli storici vi racconteranno certamente che tutto ciò non è mai avvenuto; che è solo pura finzione, fantasia, leggenda... ma questa... è un’altra storia...
M. Caniggia Nicolotti, La pietra del vescovo
in Storie di Cogne, (2022), pp. 105-108.