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Il Parco nazionale del Gran Paradiso compie 100 anni

Mauro Caniggia Nicolotti • 29 novembre 2022
Il Parco nazionale del Gran Paradiso compie 100 anni

Anno domini 1922. 
 Un periodo strano quello...: un anno che fu figlio di una breve pace tra due grandi conflitti mondiali.

A quella data anche la Valle di Cogne appariva nel bel mezzo di qualcosa. Anzi, si potrebbe dire che era esattamente divisa a metà: due grandi zone separate dal passaggio del lungo alveo di scorrimento delle acque del torrente Grand Eyvia.

A nord, infatti, si elevava la vasta regione delle miniere di magnetite presso cui centinaia di persone lavoravano a pieno regime sia nelle operazioni di sfruttamento, sia nella costruzione di infrastrutture necessarie al trattamento e al trasporto del materiale escavato fino a valle e poi da lì ad Aosta per la fusione.
Proprio il 22 ottobre di quel 1922 fu inaugurata la linea ferroviaria che permetteva di trasportare da Cogne ad Eaux-Froides (Gressan) il minerale fatto scendere dalla miniera di Colonna. Per farlo il tracciato doveva addentrarsi nel massiccio montuoso che divide il bacino di Cogne da quello di Aosta: i sette chilometri di tunnel rappresentavano allora (e per molto tempo) il traforo ferroviario minerario più lungo del mondo. 
Sul versante di Aosta, poi, una teleferica faceva scendere il materiale fino all’acciaieria costruita qualche anno prima ai bordi della città. 

Il paesaggio del versante nord della vallata, dunque, si trasformava per adattarsi ad uno sfruttamento minerario più moderno. Al punto che - come notava un giornalista - presso il capoluogo si presentava uno spettacolo che dava la sensazione di trovarsi nei pressi di una importante stazione ferroviaria piuttosto che in una località d’alta montagna. Ogni sorta di materiale rotabile, e non solo, si trovava un po’ ovunque; vagoni che andavano e venivano in continuazione e, soprattutto, le caractéristique bruit d’entrechoquement de ferrailles
Quel cambiamento andava ad aggiungersi alla carrozzabile verso Aosta (terminata qualche anno prima, cioè nel 1918), alla teleferica che collegava il villaggio alle miniere ed a numerose altre innovazioni tecnologiche e macchinari che il progresso esigeva per un miglior sfruttamento del ricco filone di magnetite di Cogne.(1)

A sud, invece, qualche settimana dopo l’inaugurazione del trenino minerario prese forma la vasta area protetta denominata Parco Nazionale del Gran Paradiso, la prima in Italia. La legge istitutiva fu approvata il 3 dicembre di quel 1922. 
Un polmone naturalistico voluto per salvaguardare tutte le specie esistenti (stambecco e camoscio in primis) che vivevano tutt’intorno al massiccio del Gran Paradiso. 
Qui, pace e silenzio dell’uomo erano intervallati qua e là dal vivere quotidiano delle popolazioni che ora si trovavano inglobate nel Parco Nazionale o all’esterno, ma comunque lungo i suoi margini. 

Oggi, il lavoro alla miniera non c’è più. La struttura è stata chiusa nel 1979 dopo quasi sei secoli di attività.
Idealmente, e paradossalmente, si può considerare tutta quella zona anch’essa un parco: un parco di archeologia industriale di grande interesse e di richiamo culturale e turistico. 

A mezzodì, invece e per fortuna, resiste immutato il Parco Nazionale del Gran Paradiso che il 3 dicembre 2022 compie 100 anni: il suo primo secolo di vita. 

In realtà, si potrebbero ricercare i prodromi del Parco molto più lontano nel tempo. 
Il 21 settembre 1821 il re Carlo Felice di Savoia (1765-1831), per esempio, stabiliva con Regie patenti che Rimane fin d’ora proibita in qualsivoglia parte de’ regni domini la caccia degli stambecchi. Quella norma generica, bisogna chiarirlo, prevedeva però e semplicemente la protezione dello stambecco - specie che per l’appunto stava rischiando l’estinzione - in tutto lo Stato sabaudo. 

Un giorno, però, le cose cambiarono. 
Era il 1841. Il Duca di Genova, fratello del Re di Sardegna, passò per Cogne a visitare le miniere. Sua Altezza Reale rimase talmente estasiato dalla natura delle regioni attraversate da riuscire poi a trasmettere a suo fratello, il futuro Re d’Italia, l'interesse per quei luoghi. 
Fu così che, dal 1850, il monarca si appassionò - frequentandolo poi assiduamente - anche del regno... naturale del Gran Paradiso istituendovi dal 1856 una "Riserva Reale di Caccia”, zona che comprendeva un territorio ben più vasto rispetto a quello oggi occupato dal Parco.(2) 

Quello che è successo da quel lontano 1922, e che ha riempito di mille narrazioni questi primi 100 anni del Parco, è un'altra storia: vicende che si rincorrono tra le pieghe dei monti, raccontando di cultura, di tradizioni, di personaggi, di ascensioni, di turismo, di sport, di natura... di bellezza infinita.


(1) La Vallée d’Aoste, 31 marzo 1923. (2) Victor Emmanuel ne commença ses chasses d’une manière régulière dans notre vallée qu’en 1854. De 1850 à 1854 ce fut une periode de négociations avec les communes de Champorcher, Fénis, St-Marcel, Cogne, Valsavaranche, Rhêmes, Valgrisanche, etc. etc. pour régler ou la vente, ou la cession des chasses. Feuille d’Aoste, 22 maggio 1878.

Ipotesi originali dei confini del Parco, istituzione, modifiche e ampliamenti nel corso del tempo.

Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 6 marzo 2025
I giorni scomparsi dalla storia valdostana Sotto silenzio è passato il 29 (o 28) febbraio, anniversario di una svolta storica: nel 1536, la Valle d’Aosta adottò il francese nell’amministrazione, abbandonando il latino. Un atto di avanguardia, tre anni prima che lo facesse la Francia stessa. Sotto silenzio passerà anche il 7 marzo. Quel giorno, nel 1536, con i territori sabaudi quasi tutti invasi dai francesi, la Valle d’Aosta si trovò sola. Ma non si piegò. Si organizzò come un vero e proprio Stato, sopravvivendo per un quarto di secolo alle grandi guerre europee. Istituì un organo di governo, il Conseil des Commis , che si occupava di ogni ambito della vita pubblica. Sono pilastri della nostra identità, eppure dimenticati. Il Conseil des Commis prima e il Consiglio Valle poi rappresentano le due massime espressioni della nostra autodeterminazione. Da sempre, la nostra autonomia si fonda sulla lingua e sull’autogoverno. Non sono simboli di divisione, ma di coesione. E oggi? Cosa resta di quella fierezza? La bandiera nero-rossa dovrebbe essere il segno di un’identità condivisa, non un pezzo di stoffa appeso a sbiadire. La politica dovrebbe farne un baluardo, non come simbolo di scontro, ma come collante. La politica deve essere unita nella trasmissione dei valori che ci hanno permesso, con fatica, di ottenere lo Statuto Speciale. E la scuola? Non può restare asettica, neutra, distaccata dalla civilisation valdôtaine . Perché senza radici, non c’è futuro.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 3 marzo 2025
Giulia Ferri de Rolland Giulia Ferri (1842-1929), originaria di una famiglia fanese di conti - suo padre Carlo fu governatore di Perugia -, (1) può essere considerata a tutti gli effetti una pioniera dell’alpinismo italiano. Si distinse per la sua determinazione e passione per la montagna, che la portarono ad essere la prima donna italiana a raggiungere le vette più alte dell’arco alpino. Di questa straordinaria donna si conosce poco. Nel 1864 sposò il barone Jules-Alexandre de Rolland (1820-1901), allora prefetto della provincia di Pesaro, acquisendo così il titolo nobiliare. Fu molto attiva e impegnata nel sociale, tanto che le cronache la citano nel 1866, durante la Terza guerra d’indipendenza italiana, quando organizzò in prefettura un Comitato di signore, il quale dividendosi in altri subcomitati per quanti sono i rioni della città, adottava di preparar filaccie, bende e camicie per i feriti, e corone pei vincitori . ( 2 ) Il barone de Rolland, in seguito, fu eletto alla Camera dei deputati per il collegio di Aosta (1880-1882), indirizzando la coppia verso la Valle d’Aosta. (3) Non a caso, le cronache valdostane iniziano a parlare di lei solo nel 1880, quando la coppia soggiornava a Courmayeur. Alla guida de toutes les dames des Colonies Italiennes et étrangères qui s’y trouvaient réunies , accolse la regina d’Italia, con cui vantava una stretta amicizia, presso l’Hôtel de L’Ange durante la sua visita alla località. Giulia Ferri si innamorò subito delle montagne e dell’asprezza del territorio. Il 16 luglio 1882 era a La Thuile a sostenere l’opera della sezione di Aosta del Club Alpino Italiano, che stava organizzando una raccolta fondi per migliorare l’accesso alle bellezze naturali locali. Ponti, sentieri e terrazzamenti richiedevano manutenzione o di nuovi interventi. Una sottoscrizione pubblica fu aperta a tal fine, et la courageuse alpiniste, Mme la baronne de Rolland la prit sous son patronage à Courmayeur . L’8 agosto 1883, una sessantina di ragazzine, riunite nel giardino dell’Hôtel de L’Ange, ricevettero dalla baronessa numerosi capi d’abbigliamento (vestiti, maglioni, scialli, cappelli, ecc.). La sua generosità suscitò grande entusiasmo e, tra grida di gioia, le giovani abbracciarono la loro benefattrice. Poche settimane dopo, la baronessa de Rolland era pronta per la sua più importante impresa alpinistica: raggiungere la vetta del Monte Bianco (4.807 m) . Per farlo, attraversò il Colle del Gigante, raggiunse Chamonix e salì il colosso dalla via francese il 27 agosto. C’est la première italienne qui ait fait jusqu’ici cette ascension, riportava un giornale dell’epoca . Al suo ritorno al villaggio savoiardo, l’intrépide alpiniste ricevette l’ovazione dei turisti presenti e furono organizzati scoppi di petardi. Secondo un giornale svizzero “al suo ritorno a Chamonix, in suo onore è stato sparato un colpo di cannone, mentre la popolazione l’ha accolta con un coro di “Evviva l’Italia!”. Donna di polso, attiva e intraprendente, non mancò di far sentire la propria voce anche in ambito politico. Durante una festa tenutasi a Châtillon nel 1885, suo marito, nel presentare il benvenuto alle varie autorità comunali e ad altre personalità di rilievo, non dimenticò di faire une large place au plus bel ornement de la fête, à Mme la Baronne de Rolland, qui présidait à la table ronde . Poche settimane prima, il 18 agosto 1885, era salita fino all’Aiguille des Glaciers (3.816). Il 2 settembre 1886 si cimentò in un’altra impresa straordinaria: la scalata delle Grandes Jorasses (4.208 m), cette immense montagne qui parait vouloir lutter avec le Mont-Blanc, et que peu d’alpinistes osent affronter . Fu la prima donna a raggiungere la vetta, e secondo le cronache dell’epoca lo fece con straordinaria facilità e in breve tempo. La sua eccellente forma fisica le permise, nello stesso periodo, di partire dal rifugio Vittorio Emanuele II (Valsavarenche) per salire in cima al Gran Paradiso (4.061 m). Il 3 agosto 1887, Giulia de Rolland, partita dalla capanna al Colle del Gigante, raggiunse la Tour Ronde (3.792 m). All’inizio di agosto del 1889, la baronessa de Rolland affrontò il Dente del Gigante (4.014 m), ascensione réputée jusqu’ici impossible . Pochi giorni dopo, il 31 agosto, scalò la Grivola (3.069 m). Fu lei stessa a raccontare le sue imprese estive, che vennero pubblicate su La Rivista Alpina , n. 10, uscita in ottobre. (4) Il 3 settembre 1891, la nobildonna raggiunse la Punta Dufour (4.634 m), la vetta più alta del Monte Rosa. Alla sua passione per la montagna si accompagnava anche quella per la fotografia. Un giornale del 1893 informava che la baronessa, “ben nota nel mondo dell’alpinismo e soprattutto nella Valle d’Aosta, ha ottenuto una medaglia di bronzo alla mostra fotografica di Torino. Ha esposto una quantità di vedute alpine realizzate con una rara abilità: le cime del Monte Bianco, il Dente del Gigante e molte altre vette delle nostre Alpi. Madame la baronessa de Rolland è appassionata delle nostre montagne, che ha percorso compiendo ascensioni pericolose e di prim’ordine. Al gusto per l’alpinismo, unisce quello per l’arte, e i suoi lavori fotografici contribuiranno a far conoscere sempre più le bellezze della Valle d’Aosta”. La mostra, organizzata e ospitata dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, presentò una selezione delle sue fotografie scattate durante le peregrinazioni alpine; queste e altre immagini furono successivamente donate alla sezione del CAI del capoluogo piemontese. Negli anni successivi, quando la montagna divenne per lei sempre più lontana, continuò a dedicarsi alla beneficenza, attività che non aveva mai abbandonato. Nel 1901, ad esempio, contribuì alla raccolta fondi per la costituzione del giardino botanico al Plan Gorret di Courmayeur. Con il passare del tempo, le tracce di Giulia Ferri si affievolirono, e non sembrano esistere fotografie che la ritraggano. Si spense nel 1929, all’età di 87 anni, lasciando un’eredità di coraggio, passione e impegno che merita di essere ricordata. (1) Nel 1892, Giulia Ferri avviò importanti lavori di ristrutturazione e ampliamento nella villa di famiglia a Fano, che in seguito prenderà il suo nome. https://www.histouring.com/strutture/relais-villa-giulia/ (2) Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia , 21 maggio 1866. (3) Da Chieti fu spostato a Livorno, poi a Firenze (1876). Dopo il seggio di Aosta, rappresentò successivamente Ivrea, poi fu senatore e consigliere provinciale di Torino dal 1885 al 1895 (4) Feuille d’Aoste , 6 novembre 1889.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 1 marzo 2025
Alle origini della Fëta dou barò di Cogne In occasione del carnevale del 1903, la gioventù di Cogne, desiderosa come sempre di ballare e divertirsi, inviò un carrettiere ad Aymavilles per acquistare quattro barili di vino, poiché a Cogne, situata ad un’altitudine priva di vigneti, non è possibile produrlo. Il trasportatore, una volta terminato l’acquisto, intraprese il viaggio di ritorno con il suo prezioso carico, godendosi la fresca giornata e concedendosi qualche sorso di troppo di vino lungo il percorso. Mais le chemin de Cogne, surtout en hiver, a toujours été funeste aux charretiers qui sacrifient à Bacchus! (1) così si espresse un giornale dell’epoca; (2) un modo elegante per sottolineare quanto la strada, già difficile di per sé, dovesse essere affrontata con sobrietà e cautela. In quei giorni, poi, il paesaggio era dominato dal ghiaccio e dalla neve, rendendo il tragitto ancora più arduo e pericoloso. Ma i giovani di Cogne, colmi di entusiasmo e felicità all’idea delle prossime serate di festa, non potevano più attendere che il carrettiere arrivasse in paese. Decisero così di andargli incontro lungo la strada munie d’un accordéon dont les accords faisaient trémousser ces jambes alertes, pleines de fourmillements. Ma, marche que te marche sempre più giù per il ripido sentieraccio di Cogne, l’ansia dei ragazzi cresceva ad ogni passo. E quando raggiunsero il villaggio di Vieyes, si trovarono di fronte ad uno spettacolo inatteso e spaventoso: nel burrone sottostante, a circa cento metri sotto di loro, giacevano il mulo, il carretto e i barili, precipitati in fondo al dirupo. La povera bestia era morta, il mezzo di trasporto si era fracassato en mille morceaux e il vino aveva macchiato di rosso la neve immacolata. Il conducente, confuso e sconvolto, era invece seduto ai bordi della strada, incapace di credere alla catastrofe appena subita; a pensarci bene, solo due giorni prima gli avevano offerto seicento lire per il mulo! L’episodio descritto, tratto da un giornale dell’epoca, potrebbe essere stato il germe di una tradizione ancora oggi viva e sentita nella valle di Cogne: la Fëta dou barò , ossia la “Festa del barile”. Questa celebrazione rappresenta ancora oggi un momento di passaggio all’età adulta per i giovani coscritti della valle, per quanto la leva militare obbligatoria sia stata abolita a partire dal 2005. Da notare, inoltre, che a Cogne un tempo era consuetudine che i parenti e gli amici dei giovani coscritti accompagnassero i ragazzi per un breve tratto di strada, giusto il tempo di un ennesimo saluto prima che leurs braves qui se rendaient au district militaire abbandonassero la vallata. Al netto di queste diverse vicende, si potrebbe sostenere che a partire dal 1904 nacque la tradizione di accogliere il vino a Épinel. Ancora oggi, nel villaggio, il barilotto (della capienza di 50 litri) viene portato a spalla solo dai giovani del paese che compiono un tratto della piazza. Successivamente, il barile viene trasportato in corteo dai giovani fino a Cogne su un carretto trainato da un mulo. Dopo una meritata tappa a Crétaz, con tanto di spuntino, i festeggiamenti continuano nel capoluogo con balli e divertimento, durante i quali tutti i giovani coscritti della comunità dimostrano le loro abilità trasportando su una spalla il pesante barile. Quest’ultimo non deve cadere, altrimenti non porta fortuna alla classe di quell’anno... oltre al danno, forse a ricordo di quell’incidente del 1903. Chissà! (1) “Ma la strada di Cogne, soprattutto in inverno, è sempre stata funesta ai carrettieri che si sacrificano a Bacco!”. (2) Articolo firmato X. X, Le Mont-Blanc , 13 marzo 1903 .
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 25 febbraio 2025
Una “strana idea d’indipendenza” della Valle d’Aosta Nel corso dei secoli, la Valle d’Aosta ha sempre coltivato l’idea dell’autogoverno. In passato, la nostra terra non solo ha maturato questa idea, ma, forte di numerosi momenti di gestione autonoma, ha sperimentato e consolidato un sistema amministrativo incentrato sul far da sé. L’autonomia moderna, sancita costituzionalmente tra il 1945 e il 1948, rappresenta semplicemente il risultato di secoli di capacità di autogestione quando la presenza statuale di turno era marginale in un sistema valdostano che si reggeva quasi da solo. Nel 1848, però, l’assetto amministrativo del Regno di Sardegna subì cambiamenti e il territorio della Valle d’Aosta, all’epoca paragonabile a una regione moderna, fu declassato a provincia del Piemonte. Nel 1859, fu addirittura ridotto a semplice circondario della provincia di Torino. Tra le molte richieste di riottenere l’autonomia amministrativa perduta, ce n’è una poco nota, nascosta tra le pagine di un giornale. Nel 1913, il settimanale Pays d’Aoste titolò in modo curioso un articolo: La percée du Mont-Blanc et l’indépendance du Pays d’Aoste . (1) L’articolo denunciava come la regione fosse diventata un cul-de-sac che impoveriva tutti. In sintesi: in passato, le antiche vie avevano consentito il passaggio di molte persone, idee e commerci; ciò andò avanti finché il Pays d’Aoste continuò a se tenir en communication avec tous les peuples du nord et de l’ouest de l’Europe . Ma con l’arrivo delle ferrovie, tutto cambiò poiché lo Stato sabaudo privilegiò il Moncenisio e il Frejus come percorsi, volendo portare vantaggi alla città di Torino. Il collegamento tra Aosta e Ivrea invece, arrivò tardivamente e con difficoltà nel 1886 e non certo “per i begl’occhi dei Valdostani”, ma “per motivi strategici e di difesa nazionale: “La Valle d’Aosta non doveva più riaprire le sue antiche comunicazioni con i paesi transalpini, e i valdostani dovevano sempre dipendere da Torino per recarsi in Savoia o in Svizzera, a due passi da casa, al di là del confine!”. Così nacque l’idea per qualcuno di una soluzione amministrativa sui generis: perforare il massiccio del Monte Bianco per far passare una linea ferroviaria e ottenere anche l’ indépendance politique du pays d’Aoste . Il giornale precisava: “È ovvio che per indipendenza politica non intendiamo la separazione dallo Stato, ciò è molto lontano da questo. Vogliamo semplicemente dire che, nella politica interna, la Valle d’Aosta deve emanciparsi dal controllo che i politici torinesi hanno sempre voluto e spesso sono riusciti ad imporre ai valdostani. Questo non è affatto facile, poiché con i sistemi centralizzatori che ci opprimono, una grande città come Torino ha un potere colossale, e il peso di una piccola provincia deve ovviamente essere sproporzionato. Tuttavia, non bisogna disperare. Abbiamo visto in passato che i rappresentanti della Valle d’Aosta sono stati in grado di resistere coraggiosamente ai torinesi, e la questione del Monte Bianco aveva fatto progressi così significativi che la stampa torinese aveva iniziato a gridare e a intraprendere una campagna che, ahimè, è riuscita troppo bene! Più tardi, tutto è tornato nel silenzio. Ci sembra che sia ora di romperlo”. Il tutto si ruppe sì, ma solo dopo la Seconda guerra mondiale, quando i decreti luogotenenziali del 7 settembre 1945 finalmente staccarono la Valle d’Aosta dal Piemonte, rendendola autonoma e poi a Statuto Speciale (1948). Per la cronaca, il tunnel del Monte Bianco fu aperto al traffico nel 1965. Une drôle d’indépendance , quella che, alla fine, ha visto un traforo aprire solo una strada, mentre l’autonomia era già emersa dalle radici della terra. (1) Edizione del 24 ottobre.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 23 febbraio 2025
L’antica casa Mutta (Aymavilles) rischia di crollare? Chiunque percorra la strada che da Aymavilles sale verso Cogne si trova a osservare un rudere che emerge dal paesaggio con la sua austera testimonianza di un passato industriale. Si tratta dei resti di una costruzione di fine Seicento, situata a La Nouva (1.300 m), o La Présa , tra Vieyes e Épinel, un tempo fulcro delle attività legate alla fusione del minerale estratto dalle miniere di Cogne e di Chanté (Gressan). Oggi, di questa casa - maison Mutta - sopravvive solo il perimetro murario, mutilato di recente dal crollo di una porzione del lato nord-ovest, forse qualche tempo dopo l’alluvione avvenuta tra il 29 e il 30 giugno 2024. La struttura è legata alla figura dell’imprenditore bergamasco Carlo Mutta, originario della Val Brembana, che nel 1659 ottenne dal Comune di Cogne la concessione della fusione del minerale proveniente dalle miniere di magnetite di Liconi. Purtroppo, le tensioni con la comunità locale, che osteggiava l’ingerenza di forestieri, ossia di imprenditori non del luogo, lo costrinsero ad abbandonare ogni attività presso le fucine locali e a trovare una soluzione alternativa. Con il permesso del barone de Challant, Mutta costruì una nuova fucina proprio a La Nouva di Aymavilles, vicino al confine con Cogne; la struttura risulta già operativa nel 1667. Questa divenne il centro delle operazioni metallurgiche della famiglia Mutta fino alla morte di Carlo, avvenuta il 7 ottobre 1705 proprio in questa struttura. I suoi figli Aurelio e Bernardo ereditarono l’attività e riuscirono a riallacciare nuovi accordi con la comunità di Cogne. Dal 1731, la fucina, ceduta dal nipote Carlo ai Vaglia di Ivrea, passò di mano in mano ad altri imprenditori (Empereur, Bianchi, Gervasone, Sarriod-de-La Tour, Ansermin e Gerbore), alcuni dei quali arrivarono a impiegare fino a più di cento operai. Ma, presto, la fucina cominciò un lento declino. Nel 1828, la struttura risultava ancora operativa, ma già nel 1806 si documentavano segni di deterioramento dei macchinari, in particolare dell’ arbre de la fusine de la nauvaz . (1) La riduzione della superficie boschiva e le difficoltà logistiche portarono infine allo spostamento delle officine più a valle, nei pressi del ponte di Chevril, dove la lavorazione del minerale poteva avvenire con maggiore efficienza. (2) Il recente crollo del muro nord-ovest ha riportato all’attenzione la fragilità di questo sito, ma anche la necessità di un intervento mirato a preservarlo. Il recupero della maison Muttaz non significherebbe soltanto consolidare i resti esistenti, ma offrirebbe anche l’opportunità di restituire dignità a un pezzo di storia valdostana, oltre a un’eventuale valorizzazione turistica del sito che oggi ospita anche un’importante opera di presa d’acqua. (3) Forse, ripensando La Nouva, si può immaginare un percorso che restituisca voce a quei muri che ancora resistono, che possano raccontare il passato a chi oggi attraversa la valle, incuriosito da quelle antiche rovine. Un passato che attende solo di essere riscoperto e che potrebbe essere agganciato alla rete di valorizzazione del patrimonio archeologico industriale che a Cogne da diversi anni è già in atto. (1) Archivio Notarile Distrettuale di Aosta, Tappa di Aosta, notaio Gérard, vol. 2633. (2) M. Caniggia Nicolotti, Ferro. Storia delle miniere di Cogne , pp. 46-48. (3) Da qui, attraverso un tunnel idraulico, in gran parte in galleria, l’acqua raggiunge la limitrofa Valsavarenche e poi scende fino alla centrale idroelettrica di Chavonne (Villeneuve), grazie a una condotta forzata.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 20 febbraio 2025
Aosta e lo Zar Nel 1894, dietro ordine ricevuto telegraficamente dal Governo , agli edifici pubblici delle città italiane fu imposto di esporre le bandiere abbrunate per la morte dell’imperatore di Russia, Alessandro III (1845-1894). Anche Aosta non fu esclusa da questa disposizione. Tale decisione dello Stato suscitò l’indignazione di molti, incluso il giornale valdostano L’Alpino , che nell’edizione del 9 novembre di quell’anno si espresse così riguardo a quel sovrano: Questi sarebbe certo stato un ottimo sovrano, se non avesse popolato la Siberia di giovani studiosi e coltissimi, di null’altro colpevoli che di voler un governo costituzionale; se non avesse perseguitato cosi crudelmente gli Ebrei forzandone una buona parte ad emigrare altrove; e se avesse fatto rispettare la libertà religiosa nell’infelice Polonia, dove interi villaggi furono distrutti dai Cosacchi e gli abitanti forzati ad abbracciare la religione ortodossa . Il giornale Le Duché d’Aoste , il 7 novembre, si espresse invece in modo più formale sulla morte dello Zar: Depuis le matin du samedi, 3 novembre, nous voyons hissé devant tous les bureaux du gouvernement, le drapeau national en berne et cravaté de noir . Le parole usate dal periodico Le Mont-Blanc , il 9 dello stesso mese, non furono molto diverse. Le critiche si riferivano alle decisioni autocratiche di Alessandro III, che durante il suo regno annullò alcune delle riforme del padre, Alessandro II. L’assassinio di quest’ultimo ebbe un forte impatto sul carattere del figlio e sulla sua politica, che fu, per dir poco, autoritaria e nazionalista. Detto ciò, la bandiera a lutto fu esposta anche tra le montagne valdostane, come stabilito dal governo italiano. Oggi, a oltre un secolo di distanza, la storia sembra riproporre cicli già visti, con il potere autocratico che, in alcune regioni del mondo, segna ancora il destino dei popoli. Gli equilibri internazionali si trasformano, ma il peso delle scelte di certi governi continua a incidere sulla memoria collettiva e sul futuro delle nazioni.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 17 febbraio 2025
Aosta, Piazza Carlo Alberto, 91 Nel 1851, il signor Pierre Jorcin pubblicizzava sui giornali valdostani l’apertura ad Aosta del suo negozio al numero 91 di piazza Carlo Alberto (attuale piazza Chanoux), maison Décoularé . Nel suo magazzino l’ épicier Jorcin commerciava un po’ di tutto, principalmente cera del Levante di prima qualità, lane, filati da ricamo, zucchero, caffè, letti, materassi, mobilio, oggetti in rame, ecc.: il espère que les personnes qui voudront lui donner leur confiance seront satisfaites tant de la qualité des marchandises que de la modération dans le prix . (1) Prima di aprire il suo negozio, aveva lavorato presso l’Ambasciatore della Baviera a Torino, città che poi abbandonò per raggiungere Aosta, dove fu al servizio di monsignor Jourdain, vescovo di Aosta (1832-1859), e poi del suo successore Duc (1872-1907). Nel frattempo, Pierre Jorcin era diventato proprietario di diversi beni e case; due di esse portavano il suo nome, una si trovava nei pressi dell’attuale Biblioteca Regionale, l’altra in via San Giocondo. L’uomo era ben integrato nella società aostana dell’epoca, dove ricopriva diversi incarichi. Era, per esempio, membro del Comice Agricole e tra i fautori nel 1871 della Société promotrice de l’apiculture dans le Duché d’Aoste , Tesoriere del comitato che si era interessato di organizzare i festeggiamenti a seguito dell’insediamento alla cattedra di Aosta di monsignor Duc (1872), Presidente dell’ Union des ouvriers catholiques ; si interessò anche alla proprietà del giornale Feuille d’Aoste nel 1873. Nel 1874, correva voce che qualcuno avesse tentato di assassinarlo. L’opinione pubblica fu presto rassicurata da quelle voci false. Si trattava solo di un alterco tra il commerciante e uno dei suoi debitori: une légère rixe, sans qu’il y ait eu la moindre préméditation . (2) Nel 1881, Jorcin si ritirò a Lanslebourg, suo paese natale (oggi frazione del Comune francese di Val-Cenis, Savoia), dove fu anche sindaco e dove morì nel 1901 all’età di circa 85 anni: T oute sa vie, il se montra chrétien modèle; ses vertus et ses actes de bienfaisance lui acquirent le respect et l’affection soit des valdôtains, soit de ses compatriotes savoyards . (3) In uno dei locali della sua casa in via San Giocondo, Innocenzo Manzetti - l’inventore del telefono - costruì e perfezionò il suo celebre automa suonatore di flauto (1840), oltre a impiantare nel 1856 il primo stabilimento cittadino di Bain à vapeur . (1) Feuille d’Annonces d’Aoste , 15 novembre 1851; L’Impartial , 17 dicembre 1859. (2) L’Echo du Val d’Aoste , 18 dicembre 1874. (3) Le Duché d’Aoste , 9 ottobre 1901.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 13 febbraio 2025
Vulcani valdostani Con un tono ironico e provocatorio, l’articolo che segue - pubblicato dal giornale Le Mont-Blanc il 19 ottobre 1906 - riflette sull’idea che persino montagne solide e maestose come il Cervino o il Monte Bianco potrebbero, in un ipotetico scenario, diventare sfiatatoi del nucleo terrestre. Un’immagine surreale che l’articolista evidenzia per raccontare la fragilità della crosta terrestre, giocando con l’immaginazione del lettore. Il titolo che introduce il contenuto è: De ci, de là. Cheveux blancs . “I chimici hanno trovato il modo di far sparire i capelli bianchi, mentre gli scienziati, al contrario, ce li fanno diventare bianchi dalla paura. Un celebre fisico ha calcolato che lo strato solido della crosta terrestre che avvolge la massa in fusione ha uno spessore di circa sessanta chilometri. Confrontare questo spessore con il diametro della Terra è, a malapena, come paragonare un foglio di carta che ricopre una grossa palla. Ed è questa sottile copertura che ci protegge dal vulcano perpetuo che è il centro della Terra. Dobbiamo quindi aspettarci, senza stupirci, che si apra un cratere sulla cima del Monte Bianco o del Cervino, e che la nostra Valle scompaia sotto la lava di un Vesuvio, come Valparaíso e Santiago”. Dante, nel suo viaggio tra inferno e purgatorio, immaginava il sottosuolo come il regno dei tormenti. Chissà, forse il Monte Bianco o il Cervino, con un piccolo colpo di scena geologico degno della Divina Commedia , ci inviterebbero a esplorare il mezzo del cammin in modo del tutto inedito: attraversando crateri fumanti anziché sentieri alpini, con la lava al posto del ghiaccio. Eppure, se gli abissi si aprissero sotto i nostri piedi, tra gli altri monti ci resterebbe almeno un’ultima speranza: il Gran Paradiso, che nel suo nome porta già una promessa di ascesa. Un nuovo poeta potrebbe allora riscrivere il viaggio ultraterreno tra le vette, guidando il lettore dai vapori infernali ai silenzi siderali delle cime più alte. Durant d’Alighier, detto Aiguille… Forse un poeta valdostano con questo nome saprebbe indicarci la strada per risalire. Immagine di copertina: Le montagne vulcaniche, testimonianza dell'energia primordiale della Terra e delle sue trasformazioni nel tempo. (Pubblicità d'epoca: Pratt's Perfection Spirit , Anglo-American Oil Co. Ltd. pubblicata su The Tatler , 20 luglio 1921, n. 1047)
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 10 febbraio 2025
Cosa volava sopra piazza Chanoux? Domenica 21 agosto 1904, intorno alle 19, un’enorme palla colorata apparve all’orizzonte sopra piazza Chanoux e si diresse verso sud. Nella luce vespertina della sera, come riportato da un giornale dell’epoca, l’imagination de nos promeneurs crut aussitôt d’y apercevoir aussi une nacelle évidemment occupée par des voyageurs . Il giornale riferiva, infatti, che i passanti sotto quella grande palla avevano creduto di scorgere anche la gondola della probabile mongolfiera, cesta che ovviamente pensavano fosse occupata da viaggiatori. (1) L’illusione doveva essere perfetta: la curvatura del pallone, il movimento leggero e incostante nell’aria, la luce del tramonto che disegnava ombre incerte, tutto contribuiva a rafforzare la convinzione che si trattasse di un aerostato. La luce del giorno stava svanendo, ma la curiosità della gente aumentava. Iniziò così una vera e propria corsa per capire il luogo in cui le navire aérien avrebbe toccato terra. Alcuni lo seguivano con lo sguardo, indicando la traiettoria con gesti concitati; altri già si affrettavano in direzione del probabile atterraggio, con una velocità quasi irreale, Senza voler mancare di rispetto al fervore dei miei concittadini di allora, la scena ricordava le comiche proiezioni di quegli anni della Pathé, dove il movimento accelerato degli attori sembrava scandito più dal ritmo della pellicola che dalla realtà. Alla fine, il pallone atterrò sulle rive della Dora, lungo le quali si poteva notare la delusione dei molti curiosi accorsi sul posto. Fu allora che l’equivoco si rivelò in tutta la sua evidenza: non si trattava di una mongolfiera, né di un prodigio dell’aeronautica, bensì di un grande pallone di carta, probabilmente sfuggito a qualche celebrazione, festa o signe de réjouissance . Il suo involucro leggero e fragile si afflosciò lentamente a terra, sgonfiandosi senza clamore, lasciando dietro di sé solo un brusio di incredulità e qualche risata. Il giornale concludeva con una nota di comicità ( ce qu’il y a de plus comique ... ), rilevando tra i numerosi spettatori accorsi per assistere alla discesa della mongolfiera la presenza di un ragazzo d’albergo, giunto apposta per accaparrarsi nuovi clienti. Chissà se, anche dopo lo svelamento della beffa, tentò comunque di proporre a qualcuno una camera... con vista. (1) L’Union valdôtaine , 26 agosto 1904.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 6 febbraio 2025
Aosta e i balconi di Jean Seguendo il racconto di un vecchio feuilleton (1) valdostano, che nel 1857 ironizzava tra il serio e il faceto sui comportamenti di alcuni borghesi di Aosta, si possono ricavare alcune informazioni indirette, ma comunque importanti. (2) Nelle sfumature aneddotiche emergono infatti dettagli curiosi significativi. La narrazione si soffermava a un certo punto su un angolo della città situato proprio a ridosso della Porta Pretoria. (3) In quel punto si trovava un vecchio esercizio commerciale, di proprietà del signor Laurent Balla, un albergo conosciuto da tutti con il nome di Jean de la vigne . Sulla sua facciata dondolava la famosa insegna: Jean de la vigne ha! - Quel bon vin! “È vero”, annotava l’autore del feuilleton , “quel vino era talvolta buono, ma altre volte no”, e nonostante tutto risultava piuttosto costoso. Simile era il caso della zuppa servita dal ristorante, che si diceva fosse così deludente da “far credere al cliente del Martedì Grasso di essere già stato trasportato al Mercoledì delle Ceneri”. Un giorno, il signor Balla, diventato nel frattempo capitano, decise di costruire un balcone sopra la sua insegna per potersi affacciare e mostrarsi ai soldati che sfilavano acclamando a gran voce il loro hôte galoné . Tuttavia, la sua decisione suscitò le ire del vicino, Jean-Marie, che apparve alla finestra vicina. Osservando il balcone che stavano costruendo, l’uomo, infastidito, dovette pensare tra sé e sé: “Credi forse di essere più importante di me? Io valgo quanto te. Domani i miei muratori me ne faranno due. Ho soldi e credito anche io e posso ottenere prestiti sulla semplice parola. Anch’io sono stato capitano, ma senza balcone. A quel punto, Jean-Marie, chiuse la finestra con tanta violenza che i vetri tremano ancora oggi”. Non sappiamo come reagì Jean-Marie, ma quel giorno nacque una delle tante piccole rivalità di città. Storie che rivelano le “guerre” tra gli abitanti per questioni più o meno futili. Un’altra occasione di sfida si presentò nel 1886, quando la famiglia Balla si avvalse dei servizi del pittore Lanfranco per decorare il suo locale. (4) Lo stesso giornale che annotava questi episodi particolari ribattezzò l’ex ufficiale Balla come capitaine “barlet” , insinuando che con quel suo vino scadente un giorno riuscì a far ubriacare quasi cinquanta persone invitate nel giardino retrostante il suo albergo. Così, foutisés et rendus ivres-morts, ils devaient par reconnaissance le nommer conseiller . Di questa disputa, a noi oggi resta almeno un dato concreto: i balconi, sei in totale, che ancora si possono ammirare nella loro elegante fattura. (5) È evidente che il capitano Balla superò ogni previsione del geloso Jean-Marie. Storia vera, edulcorata dalla fantasia... o forse no? Immagini dei primi del Novecento mostrano insegne dedicate al “Bue Rosso”, segno di un’ulteriore evoluzione della storia di quel luogo. Fu poi la vedova Cerallo a gestire il Bue Rosso , rimpiazzando l’inoubliable Jean de la vigne , come assicurava un giornale dell’epoca. (6) Piccole storie di città che si... affacciano alla nostra curiosità. Immagine di copertina: a destra, il palazzo fotografato in una cartolina d'epoca. (1) Nato nella stampa francese del XIX secolo, il termine feuilleton (romanzo d’appendice) si riferisce specificamente a racconti, romanzi a puntate, recensioni teatrali o articoli di costume pubblicati in modo seriale. Tradizionalmente, questi contenuti occupavano uno spazio situato nella parte inferiore della pagina del giornale. (2) Scènes de la vie électorale et grandeurs bourgeoises in Le Constitutionnel , 8 ottobre 1857. (3) Angolo di nord-est del monumento. (4) L’Echo du Val d’Aoste , 24 settembre 1886. (5) Quattro si trovano al piano rialzato e due al livello superiore. Tra questi ultimi, uno si distingue dagli altri: potrebbe essere stato rifatto o aggiunto successivamente, risultando probabilmente più recente. (6) Secondo quanto riportato da Jacques Bonhomme il 18 dicembre 1903, fu la vedova di Henri Cerallo a gestire il “Bue Rosso”, succedendo a l’inoubliable Jean de la vigne . Prima di lei, la struttura era già passata sotto il controllo dei signori Fidèle Nouchy e Félix Paoletti, come documentato da L’Union Valdôtaine del 27 novembre 1903.
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