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Quella voglia valdostana di Svizzera

Mauro Caniggia Nicolotti • 6 dicembre 2020
Quella voglia valdostana di Svizzera

La storia ci ha raccontato molte vicende, che spesso tendiamo a confondere... 

Tanti, per esempio, credono che le particolarità della Valle d’Aosta e la lingua francese siano in qualche modo caratteristiche legate alla Francia, per quanto con essa i valdostani siano quasi sempre stati in guerra e solo dal 1860 vi confinano territorialmente. Lingua francese, peraltro, che in Valle è stata impiegata negli atti pubblici a partire dal 1536, vale a dire ben tre anni prima dell'Esagono. 

Ancora meno si conoscono i frequenti contatti e le affinità che la Vallée ha avuto ed ha con i territori posti oltre le Alpi Pennine; legami talmente forti da farci guardare oltre il Gran San Bernardo con un certo interesse... a tal punto che in passato la tentazione di diventare svizzeri non è stata un episodio sporadico.

L’idea di aggregare la Valle d’Aosta alla Svizzera, infatti, è maturata più volte nel corso del tempo. 
Ipotesi alle quali sono poi seguite anche delle richieste più o meno esplicite di annessione.

Ed oggi? E' ancora argomento di un qualche interesse per i valdostani?...

Per approfondire l'argomento...

La prima occasione si presentò nel XVI secolo quando la Valle d’Aosta - in un momento di guerra e di crisi politica sabauda - si ritrovò a far da sé e si organizzò praticamente come fosse uno Stato; vale a dire quando alcuni emissari svizzeri protestanti tentarono di diffondere la Riforma in Valle d’Aosta, anche in un’ottica di annessione territoriale. In quegli anni a diversi valdostani piacque l’offre de les faire alliers aux cantons suisses protestants, parmy lesquels ce duché seroit compté pour un canton.(1) 
Forse quello sarebbe stato un momento propizio, considerati gli stretti legami economici e linguistici che i valdostani avevano costruito con quelle terre che da sabaude erano divenute svizzere. 

Il progetto non fu portato a compimento, sia perché alla maggioranza dei valdostani non convinceva la riforma propugnata dai protestanti, sia per la ferma azione di difesa della religione cattolica ad opera del ben organizzato e radicato clero valdostano. Non a caso nel 1554 da Aosta furono presi contatti con i rappresentanti dei cinque cantoni cattolici della Svizzera (Lucerna, Uri, Schwitz, Unterwals e Zug), pregando loro di intervenire con lo Stato del Vallese al fine di evitare quelle gravi conseguenze che si sarebbero avute a seguito di una loro invasione in Valle d’Aosta. Varie vicissitudini convinsero i vallesani a rinunciare ai loro propositi. (2)

Un secondo avvenimento similare è databile alla fine del XVII secolo, quando i Savoia sembravano nuovamente intenzionati a sopprimere le prerogative locali. 
Di fronte a questa nuova ondata accentratrice, molti valdostani si riunirono (ovviamente in gran segreto) proponendo un’eventuale richiesta di adesione alla Svizzera da perseguire nel caso non fossero state ripristinate le prerogative valdostane. 
La rivolta progettata prevedeva l’occupazione del castello di Bard, quindi il controllo del passaggio con il Piemonte et puis on est dans le dessein de se donner aux Suisses.(3) 
Il cospicuo donativo ai Savoia a cui furono nuovamente chiamati i valdostani costituì il prezzo per la conferma dei loro antichi diritti, facendo così rientrare ogni proposito di rivolta. 

Ma cosa attirava i valdostani della Svizzera? 
Sicuramente l’organizzazione di tipo confederale dello Stato elvetico rappresentava l’elemento più attraente per un popolo come quello valdostano, abituato ad operare in una relativa autonomia amministrativa. 
In quest’ottica appariva perfetto un contesto di un potere forte dal basso, che potesse delegare ad un’autorità superiore la guida e alcune funzioni fondamentali; quindi delega dal basso verso l’alto, piuttosto che il contrario. Elementi costanti nel tempo verso i quali - come evidenziato in precedenza - guardarono con grande interesse anche il dottor César Emmanuel Grappein (1772-1855) ed Emile Chanoux (1906-1944), quest’ultimo riconoscendo alla Svizzera un possibile ruolo di unificazione dei piccoli popoli del centro Europa posizionati sia a nord, sia a sud delle Alpi; e ciò in prospettiva di una futura possibile comunità europea.(4)

Fu probabilmente su questi presupposti che nuove istanze di annessione alla Svizzera si levarono verso la fine della Seconda guerra mondiale (e anche successivamente), come possibile soluzione dopo il conflitto. Il giornale elvetico La Liberté, che si rifaceva a fonti italiane,(5) rivela che già nel giugno 1944 alcuni separatisti valdostani avevano varcato il confine per incontrare le autorità federali al fine di proporre un’annessione della Valle alla Confederazione Elvetica, la quale rigettò tale proposta, ritenendola identica a tutte quelle che venivano usualmente avanzate dai popoli confinanti sconfitti in una qualche guerra.

A fronte delle numerose voci di annessione, non è chiaro se dalla Svizzera fosse giunto un qualche tipo di incoraggiamento. Il giornale elvetico Confédéré del 22 giugno 1945, nell’affrontare la questione valdostana aveva precisato molto chiaramente, infatti, come depuis quelques jours, nos voisins de la province d’Aoste font beaucoup parler d’eux. Nous ne prendrons parti ni pour le mouvement autonomiste ni pour le mouvement séparatiste.

Le voci su una possibile annessione alla Svizzera, comunque, non dovettero essere una semplice boutade avanzata da qualcuno, magari solamente per mettere pressione a chi si stava occupando del destino della Valle in quei delicati frangenti. 
A tale proposito, nell’ambito di una dichiarazione rilasciata il 3 ottobre 1945 dall’ex Presidente del Consiglio dei Ministri, Nitti, comparvero alcuni cenni sibillini che potrebbero leggersi come riferiti all’ipotesi di pretese svizzere sulla Valle; relativamente alle cosiddette autonomie, Nitti affermava, infatti, come di questa povera Italia ognuno vuol prendere qualche cosa. Gli stranieri (e anche nazioni minori!) avanzano aspirazioni territoriali e pretese assurde e ridicole. (...) I movimenti artificiali che furono determinati non ebbero certamente origine Italiana e nemmeno, bisogna onestamente riconoscerlo, del governo francese; ma furono però iniziative individuali non italiane.(6)
Passaggi volutamente criptici, ma che potrebbero anche essere interpretati come riferiti ad iniziative di provenienza filo-svizzera. 
Non solo, perché diversi mesi dopo il già citato giornale Conféderé - che nel giugno 1945 si era dichiarato neutrale sulla questione - nell’edizione del 25 febbraio 1946, in merito alla richiesta dei valdostani di coinvolgere addirittura le Nazioni Unite nella salvaguardia delle loro particolarità, si mostrava preoccupato “se tale appello sarebbe stato ascoltato”, conscio della notevole rilevanza “esplosiva” che un tale pronunciamento avrebbe potuto avere sui destini delle minoranze in tutta Europa.(7) 

Come sempre, però, la politica, la diplomazia e le aspirazioni delle persone seguono spesso percorsi differenti, talvolta senza riuscire a trovare una soluzione condivisa. 
Se mai in quegli anni delicati la Confederazione Elvetica fosse stata realmente intenzionata ad allargare i suoi confini verso sud, l’idea venne accantonata per differenti e complesse considerazioni; non ultima anche la necessità di evitare l’apertura di dissidi internazionali con la nascente Repubblica Italiana,(8) uscita devastata dal conflitto. 
In realtà l’idea di unione alla Svizzera non tramontò definitivamente. Ancora nel 1950 e quindi in piena guerra-fredda, infatti, la stampa parlò apertamente di una tale ipotesi - che fece sensazione a Roma - in caso di entrata in guerra dell’Italia (...) au cours d’une réunion, les Valdotains ont accepté une proposition aux termes de laquelle, en cas d’entrée en guerre de l’Italie, la région autonome de la vallée d’Aoste devrait se détacher de l’Italie et demander son rattachement à la Suisse.(9)


(1) J.-B. De Tillier, Historique de la Vallée d’Aoste, p. 162. (2) J.-A. Duc, Histoire de l’Eglise d’Aoste, V, p. 399. (3) R. Nicco, La questione valdostana e la conferenza di Parigi, in Confini contesi. La Repubblica italiana e il Trattato di pace di Parigi (10 febbraio 1947), pp. 75-76. (4) Ibidem. (5) La Liberté dell’8 giugno 1945 cita il Corriere d’Informazione di Milano. (6) La Stampa, 4 ottobre 1945. (7) Les Nations unies prendront-elles parti pour les Valdôtains contre l’Italie? Nous ne pouvons hasarder aucun pronostic à ce sujet. Quoi qu’il en soit, s’il est vrai que les peuples ont le droit de disposer d’eux-mêmes, il faut souhaiter que cette question fasse l’objet d’une étude approfondie. Le problème des minorités est délicat entre tous, dangereux même, autant que le pire des explosifs. Les habitants de l’Europe centrale sont bien placés pour le savoir. (8) R. Nicco, op. cit., p. 76. (9) Rhône, 3 marzo 1950.

Fonte argomento:: 
M. Caniggia Nicolotti, L. Poggianti, Idee, aspirazioni e percorso di autogoverno valdostano. La lungimiranza di un piccolo popolo, pp. 68-71.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 21 novembre 2024
Come si chiamava la signora di Brissogne? Un esempio del fatto che le donne tante volte restavano nell’ombra è rintracciabile nell’articolo che segue, il quale riporta il decesso di una donna a Brissogne. Questo il necrologio pubblicato il 13 novembre 1936 dal giornale Le Mont-Blanc : “Un lutto molto crudele ha appena colpito una delle famiglie più stimate di Brissogne, la famiglia del signor Bionaz Isaïe, portandogli via, dopo soli pochi giorni di malattia, la sua amata moglie e tenera madre dei loro figli. Questa umile donna valdostana era l’angelo del focolare, où ses vertus formaient le lien qui enchaînait l’affection et commandait le plus profond respect et la plus vive tendresse . Compagna intelligente e devota, madre esemplare, lo scopo della sua vita era la prosperità della sua famiglia, a cui non ha mai smesso di contribuire, fornendo al marito sostegno, impegno e incoraggiamento anche attraverso il suo affetto forte e fedele. La popolazione di Brissogne, profondamente addolorata da questa improvvisa dipartita, ha riservato alla defunta solenni funerali, ai quali hanno partecipato conoscenti provenienti da tutti i punti della Valle. Depositeremo il fiore del ricordo su questa tomba aperta troppo presto, offrendo le nostre condoglianze al signor Bionaz Isaïe, ai suoi quattro figli affranti e a tutta la parentela". Resta un dubbio: ma come si chiamava la signora Bionaz? Errore, dimenticanza o altro, sta di fatto che lo stesso giornale, una settimana dopo, corresse la sua mancanza, pubblicando i ringraziamenti dei familiari alle condoglianze e citando, finalmente, il nome della donna: si trattava di Célestine Pagel, deceduta a 69 anni. Racconto tratto dal mio libro: Donne oltre le cime. Storie al femminile in Valle d'Aosta , 2024.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 18 novembre 2024
I primi filmati girati in Valle d’Aosta Un giornale valdostano del 1911 riportava un fatto curioso: (1) “La poesia delle nostre montagne, dei nostri ghiacciai e delle nostre cascate: queste sono le bellezze che sembrano interessare i parigini. Questi sono, quindi, i soggetti che il signor Murot - venuto appositamente da Parigi per catturare immagini fotografiche del ghiacciaio del Rutor e proiettarle successivamente con il cinematografo - porterà davanti agli occhi degli spettatori della capitale francese.” Il 20 gennaio 1911, a mezzanotte, Murot partì da La Thuile per salire sul massiccio del Rutor, accompagnato dalla guida Maurice Bognier e dai portatori Joseph Vauterin e Sylvain Jammaron. Alla spedizione si unirono anche una trentina di soldati sciatori, coordinati dal tenente Gatto-Roissard, dal sottotenente Naya, da un medico militare e dalla guida Joseph Petigax di Courmayeur. Quando il gruppo raggiunse il rifugio Santa Margherita (2.465 m), erano le sei del mattino. A mezzogiorno arrivarono alla capanna Défey (3.370 m). Il giornale che documentò l’ascensione riportò: “Tempo splendido, sole magnifico, nessun vento. Il signor Murot ha potuto fotografare le meraviglie dell’immenso ghiacciaio nelle condizioni migliori. I soldati si sono potuti dedicare liberamente agli esercizi sugli sci e alle manovre”. La cronaca si chiuse con una riflessione: “Questo accadeva il 20 gennaio 1911: un evento interessante per la storia dell’alpinismo”. (2) Non si sa quali immagini siano state selezionate per il montaggio cinematografico, né quali testi o sottotitoli siano stati scelti da Murot o dai suoi collaboratori. Purtroppo, non sono emerse tracce documentarie di quest’opera o dello stesso Murot. Tuttavia, il risultato dovrebbe essere considerato tra i primi filmati girati in Valle d’Aosta. Prima di allora, va ricordata la figura di Arrigo Frusta (1875-1965). Nel dicembre del 1910, quest’ultimo si spinse con la macchina da presa a 4.000 metri di altezza sul Monte Bianco, realizzandovi tre documentari, tra i primissimi d’alta montagna nella storia del cinema: Da Courmayeur al Colle del Gigante, Escursioni sulla catena del Monte Bianco” e, nel 1911, “Sulle dentate scintillanti vette” . (3) Questi documentari, dedicati all’alpinismo, furono distribuiti in Francia, Austria-Ungheria, Germania e Gran Bretagna, contribuendo a diffondere l’immagine delle Alpi valdostane in tutta Europa. (1) Le Duché d’Aoste , 1° febbraio 1911. (2) Temps superbe, soleil splendide, point de vent. M. Murot put photographier les splendeurs de l’immense glacier dans les conditions les plus avantageuses. Les soldats purent se livrer à souhait aux exercices du ski et des jarrets . (3) Centro Studi Piemontesi, Fondo Archivistico “Arrigo Frusta” - giornalista, scrittore, attore e sceneggiatore cinematografico - (1740-2015), Inventario Andrea Maria Ludovici, Novembre 2017, p. 8.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 14 novembre 2024
Piccole storie semplici, aneddoti, fatti curiosi... Un asino della val d’Ayas in fuga Il periodico Le Mont-Blanc del 19 dicembre 1913 pubblicò una storia singolare, avvenuta ai piedi dell’imponente massiccio del Monte Rosa (4.634 m). Un certo N. J., mentre saliva da Brusson verso l’alta valle con un asino carico di cereali, si trovò a fronteggiare un evento inaspettato: improvvisamente l’asino decise di abbandonarlo, fuggendo via con tutto il carico; on assure que la pauvre bête portait une charge de 100 kilos!! Il conducente, disorientato, fece di tutto per rintracciarlo, ma senza successo. Nemmeno il passaparola nei comuni vicini, attivato appena l’uomo realizzò la situazione e cercò aiuto, portò a risultati. Ormai, tutto sembrava perduto. Il padrone poteva solo immaginare che l’animale fosse morto, forse caduto da qualche parte con l’intero carico prezioso. Fu solo dopo ben otto giorni che l’asino fu ritrovato. Brucava tranquillo nei boschi della zona del Col de Joux (1.640 m), ancora con tutto il carico di cereali sulla schiena... come se nulla fosse accaduto. Il motivo di quella fuga improvvisa rimase un mistero. Forse l’asino era stato spaventato da qualche animale o...
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 11 novembre 2024
La più alta panetteria d’Europa... tra i sassi Un giornale valdostano pubblicò un curioso articolo intitolato: “La più alta panetteria d’Europa”. Nel 1898, gli imprenditori Charles e i fratelli Bianchi di Aosta erano impegnati a realizzare una nuova costruzione al Gran San Bernardo. Dovendo fornire cibo a una legione di lavoratori, circa un centinaio, ebbero l’ingegnosa idea di costruire un forno per il pane a quell’altitudine, ovvero 2.472 metri sul livello del mare. Il loro progetto incontrò subito diversi ostacoli da parte di coloro che lo ritenevano impraticabile a causa della qualità dell’acqua, che provenendo direttamente dalla fusione delle nevi risultava povera di minerali. Non solo. I detrattori ritenevano che la rarefazione dell’aria in quella regione alpina avrebbe rappresentato un problema. Tuttavia, tutte quelle incertezze sparirono presto e si trasformarono in consenso. Il pane, infatti, risultò eccellente, e a sorprendere ulteriormente fu la varietà dei prodotti che il panettiere riuscì a realizzare: grissins” très friands , oltre a torcetti e gâteaux dal gusto squisito. Alcuni assaggi, portati a Martigny e altrove, furono apprezzati dalle bocche più esigenti. Ad Aosta furono accolti con entusiasmo tanto quanto in Vallese. Gli imprenditori Bianchi introdussero anche un’altra importante innovazione. Poiché al Gran San Bernardo la scarsità di sabbia è sempre stato un problema per chiunque abbia cercato di costruire edifici di una certa importanza, decisero di risolverlo acquistando in Svizzera una macchina per macinare le pietre, investendo una somma considerevole. Questo apparecchio, che un giornale del 1898 riportava come en voie de placement et ne tardera pas à fonctionner , era azionato da un motore a gas alimentato a petrolio, che allora costava solo 20 centesimi al litro, e poteva produrre fino a 12 metri cubi di sabbia al giorno. L’ingegno umano, quando... alimentato.... dalla necessità, è senza limiti. (1) Le Duché d’Aoste , 19 luglio 1898.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 31 ottobre 2024
La “rivolta” di Cogne e la distruzione del monumento ai caduti Questa storia risale al 1921, quando la comunità di Cogne, seguendo l’esempio di molti altri comuni valdostani, decise di erigere un monumento in memoria dei caduti della Prima guerra mondiale. Un progetto nobile e sentito che portò all’organizzazione di un ballo di beneficenza aperto a tutti, un evento che, però, prese una piega inaspettata. La festa danzante, organizzata il 1° febbraio, giorno del patrono Sant’Orso, prevedeva che il ricavato fosse destinato alla costruzione di un monumento per onorare i 18 soldati del paese caduti per la patria e che non tornarono di quegli oltre 250 partiti in guerra. (1) In uno spirito di inclusione, gli inviti furono diffusi non solo in francese, lingua tradizionale della Valle d’Aosta, ma anche in italiano, (2) per assicurarsi che persino i minatori non valdostani si sentissero i benvenuti. Tuttavia, come spesso accade, una serata pensata per unire la comunità finì per creare divisioni. Sul finire del ballo, due uomini furono sorpresi dai controllori di sala: erano entrati senza pagare il biglietto. Quei due individui, entrambi veterani di guerra tornati da poco dall’estero, non presero bene l’ammonimento. Al contrario, si mostrarono ostili e pronunciarono parole di disprezzo nei confronti degli organizzatori. La situazione degenerò ulteriormente quando un fratello dei due, forse complice l’alcol e la confusione, intervenne con violenza, sferrando schiaffi sia a un consigliere comunale, sia a un carabiniere, che aveva tentato, revolver au poing , di calmare gli animi (3) in quella che un giornale definì una Révolte?!!! (4) L’intervento del maresciallo dei carabinieri fu immediato, ma la tensione era ormai alle stelle. Alcuni giovani del paese, ignari delle dinamiche che avevano scatenato il disordine, decisero di opporsi all’arresto del principale responsabile all’interno della sala da ballo. Di fronte alla resistenza della folla, il maresciallo scelse di non insistere e la serata si concluse in una calma apparente. Ma la quiete fu di breve durata. Il giorno successivo, il 2 febbraio, mentre un’altra serata si animava nella sala da ballo, una squadra di carabinieri, guidata da un tenente giunto appositamente da Aosta a bordo di un camion della Società Ansaldo, fece irruzione nel locale. Scelsero una dozzina di giovani, sospettati di essere tra i principali difensori del colpevole della sera precedente, e li condussero via. Nel frattempo, il principale responsabile e uno dei suoi accompagnatori riuscirono a dileguarsi, mentre gli altri furono trasferiti ad Aosta per essere interrogati. Un giornale concluse che l’indagine aveva rivelato che si trattava solo di un ballon gonflé (un’esagerazione). Tutti gli imputati furono rilasciati su cauzione qualche giorno dopo, e il processo che si tenne successivamente non portò a risultati significativi. (5) Al di là di quei fatti, il monumento fu comunque realizzato, posato e inaugurato nel 1922 presso il municipio, ma successivamente fu demolito dai fascisti durante l’ultima guerra . (6) L’accanimento nei suoi confronti era probabilmente legato all’uso del francese sulla lapide e al processo di italianizzazione forzata, intensificatosi a partire dalla fine degli anni Trenta. Successivamente, ne fu realizzato uno nuovo con l’iscrizione: COGNE AI SUOI CADUTI . A distanza di quei giorni agitati, una nuova lapide dedicata ai caduti delle due guerre mondiali e della Resistenza partigiana, (7) dal 4 novembre 1966, si erge in piazza, accanto alla fontana in ferro, di fronte all’imponente catena del Gran Paradiso, componendo un altare della patria. (8) Fu opera dell’artista valdostano, il professor Rolando Robino, ed è un monito silenzioso che ricorda non solo i sacrifici di guerra, ma anche la fragilità della pace. (1) Era stata aperta anche una sottoscrizione riservata ai cogneins che abitavano a Parigi e in altre aree della Francia. La Vallée d’Aoste , 29 ottobre 1921. (2) Le Duché d’Aoste , 9 febbraio 1921. (3) L’Echo de la Vallée d’Aoste , 19 febbraio 1921. (4) La Doire , 18 febbraio 1921. (5) La Doire , 18 febbraio 1921. (6) Il Lavoro , 10 novembre 1966. (7) Giorgio Elter (1924-1944) fu partigiano della 87a Brigata autonoma, Banda Arturo Verraz, dal 10 agosto 1944. Perse la vita in combattimento durante un’azione al Pont-Suaz (Charvensod) il 6 settembre 1944. Alla sua memoria è stata conferita la Medaglia d’argento al valor militare; ad Aosta (Quartiere Cogne) una via porta il suo nome. (8) Nella zona di fronte al cimitero di Cogne, il 12 novembre 1945 fu innalzato un monumento - una croce in marmo bianco - dedicato alla memoria dei dieci partigiani della banda Arturo Verraz, con base operativa a Cogne, che sacrificarono la vita per la Libertà. Accanto al monumento, il 27 settembre 1964 fu posizionata una pietra commemorativa su cui è inciso: 1943-1945 Assassinés par les nazifascistes (“Assassinati dai nazifascisti”).
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 26 ottobre 2024
Cogne: un interessante disegno di oltre 600 anni fa Durante la consultazione di un documento del 1408 (1) negli archivi storici del Comune di Cogne – una ricognizione feudale relativa ai beni presenti nel territorio di Epinel– ho notato un disegno interessante in un capolettera di un manoscritto. La figura rappresentata, ispirata sicuramente alla realtà di allora, mostra uno spaccato di come i contadini si vestissero a Cogne tra Trecento e Quattrocento, offrendoci una testimonianza vivida della cultura e della moda locale. Questo semplice disegno medievale apre a ipotesi affascinanti. Sebbene la figura, per via dei pantaloni, sembri probabilmente un uomo, la stilizzazione dell’immagine lascia spazio a interpretazioni. Alcuni dettagli, come la cuffia, potrebbero suggerire una figura femminile che, sotto una gonna corta o risvoltata, lasci vedere dei calzoni. Si tratta di pura ipotesi, forse persino una forzatura, ma alcuni elementi mi fanno pensare a una somiglianza con il costume femminile odierno. Curiosamente, infatti, il disegno accenna a un dettaglio che potrebbe rappresentare la crôppa , il caratteristico rigonfiamento posteriore della gonna nel costume femminile attuale – il gouné – reso nel manoscritto con un triangolo evidente alla base della schiena. Questo dettaglio sembra distinguersi da una semplice svasatura a campana, che appare anche sul davanti dell’abito, sebbene in modo meno marcato. Una lunga fila di bottoni, caratteristica comune in molti indumenti femminili dell’epoca, attraversa la parte anteriore dell’abito, chiudendolo con eleganza e praticità. Questo particolare, ben visibile nel disegno, riflette lo stile medievale e rappresenta un elemento funzionale che, sebbene oggi assente nel costume tradizionale, richiama una certa attenzione all’ornamento e alla praticità tipica dell’epoca. La figura indossa una cuffia, forse un’antica versione della couéifie , che si presenta ampia e arrotondata, che ricorda un po’ una delle cuffie raffigurate nelle lunette del castello di Issogne e in altre iconografie medievali. Dalla cuffia spuntano quattro piccoli cerchi, forse una treccia ben raccolta. Ai piedi sono visibili zoccoli (detti sôtse ) o scarpe leggermente appuntite, calzature che, pur appartenendo a un design antico, richiamano uno stile ancora presente nel costume tradizionale attuale. Insomma, questo semplice disegno medievale suggerisce ipotesi curiose e lascia immaginare che il gouné potesse avere già una forma embrionale oltre sei secoli fa, evolvendosi e arricchendosi di dettagli più raffinati, come i pizzi al tombolo, solo a partire dall’Ottocento. Probabilmente, la mia è solo un’ipotesi; anche se nel disegno non si ravvisasse un progenitore del costume attuale, la figura offre comunque uno spaccato locale della vita contadina dell’epoca. (1) Archivio Storico del Comune di Cogne, faldone 1-15, Reconnaissance datata 5 aprile 1408.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 17 ottobre 2024
Cogne e la scuola... reale... Nel 1890, il comune di Cogne, grazie a un sussidio del Re e della Provincia di Torino, si apprestava a completare la costruzione di una nuova scuola. Il contributo statale, pari a 5.800 lire su un costo complessivo di 22.000, risultava non solo insufficiente, poiché non rispettava le leggi vigenti che prevedevano la copertura di un terzo della spesa, (1) ma era anche oggetto di critiche e problemi. Il sito prescelto per l’edificio era un vasto prato vicino al centro del paese. Tuttavia, iniziarono presto a emergere le prime lamentele. Invece di sfruttare al meglio lo spazio disponibile, l’edificio venne collocato troppo vicino a una vecchia casa rustica in legno, le cui pareti erano ricoperte di letame ( dont les parois en bois, toutes calfeutrées de fumier ), un dettaglio che molti ritenevano poco decoroso, specialmente considerando che sull’ingresso principale della nuova scuola sarebbero stati esposti gli stemmi reali. L’edificio era stato progettato non solo per ospitare le scuole, ma anche per fungere da palais communal , con la sala consiliare e la segreteria situate al primo piano. Tuttavia, la porta principale, che avrebbe dovuto costituire l’accesso principale alla nuova istituzione, conduceva in realtà direttamente al locale destinato alla pompa antincendio e a due sale la cui destinazione non era stata definita. Questi dettagli suscitarono perplessità, sia tra i cittadini, sia sulla stampa. Un certo A. R. X., come si firmava uno scrivente in un giornale locale, dichiarava di non voler entrare nei dettagli del plan primitif de cette construction qui était encore plus ridicule que celui exécuté , (2) così come non commentava l’organizzazione degli spazi o il rispetto delle norme igieniche. (3) Le critiche più accese furono rivolte a uno degli amministratori locali, accusato di aver esercitato un’influenza eccessiva, tanto da essere definito l’ homme universel . Si diceva che avesse diretto i lavori e ideato personalmente una targa in marmo - en “italien” -, descritta come somptueuse et mirifique , che fece collocare non all’ingresso della scuola, bensì su quello della pompa antincendio: “In memoria di S.M. Umberto I...”. La scelta della lingua italiana provocò un acceso dibattito, tanto che un giornale reagì come se tout ce qui se fait en français est mauvais, honteux, antipatriotique . (4) Nonostante le critiche, l’edificio divenne un importante punto di riferimento per la vita comunale, ospitando sia la scuola che le istituzioni civiche. Nel 1965 l’edificio lasciò spazio a una nuova e più moderna Maison Communale , ristrutturata tra il 2023 e il 2024; le nuove scuole, invece, furono trasferite in una nuova struttura inaugurata nel 1964 e ristrutturata tra il 2024 e il 2025. Immagine di copertina: alunni della scuola di Cogne tra le due guerre. (1) Feuille d’Aoste , 20 agosto 1890. (2) (...) “del progetto primitivo di questa costruzione, che era ancora più ridicolo di quello eseguito”. (3) Feuille d’Aoste , 4 settembre 1890. (4) Le Valdôtain , 7 maggio 1890.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 3 ottobre 2024
La leggenda del drago di Loo Nella valle del Lys esiste una leggenda secondo cui un gruppo di abitanti, desiderosi di espandere i pascoli della zona, decise di esplorare il vallone di Loo. La regione era coperta da una densa boscaglia, così gli uomini iniziarono a abbattere gli alberi. Mentre lavoravano, udirono uno strano suono proveniente da lontano: un potente drago minaccioso. Spaventati, i pastori abbandonarono il loro lavoro di disboscamento e fuggirono giù per la valle, cercando sia di salvarsi, sia di trovare un modo per sconfiggere la creatura. Molti si offrirono volontari e tentarono, ma nessuno riuscì nell’impresa. La posta in gioco era alta: non solo l’eroismo di uccidere una tale mostruosità, ma anche la prospettiva di poter sfruttare le nuove terre. Secondo la tradizione, sette uomini provenienti dai villaggi di Loomatto e di Champsil (Gressoney-Saint-Jean), riuscirono nell’ardua impresa. Con astuzia, conoscendo la voracità del drago, decisero di ingrassare un bue. Dopo molto tempo, portarono l’animale all’imbocco del vallone, avendo precedentemente ricoperto le sue corna di ferro e lame affilate, e lo lasciarono vagare liberamente. Il drago non si fece pregare e lo mangiò senza esitazione. La bestia morì dopo atroci sofferenze, e finalmente i pascoli furono liberati. I sette uomini poterono così godere delle nuove terre per il loro uso e consumo. Questa storia riflette probabilmente le particolarità di un periodo in cui, durante la fase finale del raffreddamento climatico, le nevi si ritiravano, rivelando radure e nuove aree di pascolo. Fu in questo contesto che le popolazioni locali si impegnarono per recuperare ciò che la natura aveva loro tolto tanto tempo prima. Probabilmente il periodo potrebbe essere quello appartenente al secondo Medioevo, quando la valle del Lys e altre aree intorno al Monte Rosa dal XIII secolo furono raggiunte da colonie Walser che occuparono e sfruttarono al meglio quelle regioni. Non diversamente accadeva a Cogne con coloni provenienti dalle vicine valli piemontesi dell’Orco e di Soana. Un documento del 1206 attesta, inoltre, che in estate i cogneins , attraverso il Colle di Teleccio (3.304 m), conducevano le loro mandrie all’alpeggio di Ondezana nel vallone del Piantonetto, in Piemonte, di loro proprietà. Tuttavia ancora oggi non è più raggiungibile a causa dello sbarramento dei ghiacciai. Il clima più rigido registrato nei secoli successivi indusse, nel 1751, i cogneins ad aprire una vertenza contro la Comunità di Locana, che intendeva iscrivere nei suoi registri catastali il territorio dei pascoli di Ondezana, da loro ridenominato Teleccio. La comunità di Cogne, invece, rivendicava il possesso, anche se non riusciva più a raggiungerlo facilmente. Per questo motivo, perse la vertenza e il territorio le fu tolto. (1) Immagine di copertina: Drago, particolare (1460). Fonte: Lambert de St Omer, Public domain, via Wikimedia Commons . (1) Archivio Notarile Distrettuale di Aosta, Tappa di Aosta, notaio Perret, volume 2781, anno 1751.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 1 ottobre 2024
Il primo ferro di Cogne al servizio delle armi Stabilire con precisione quando e come iniziò lo sfruttamento della magnetite a Cogne non è semplice. Sebbene nei documenti più antichi vi siano tracce di fabbri, non è chiaro se questi fossero coinvolti in un’attività organizzata di fusione della magnetite e lavorazione del ferro. Tuttavia, è certo che agli inizi del XV secolo l’attività mineraria cominciò a prendere forma in maniera definita. Il primo riferimento documentato risale al 1406, quando, su richiesta del vescovo di Aosta, il castellano di Cogne ordinò alla comunità di preparare 120 triencullos armatos per sostenere il conte di Savoia. (1) Questo potrebbe indicare l’esistenza di una produzione organizzata, legata a una forma embrionale di attività industriale, poiché notizie certe di scavi a Liconi risalgono al 1408. (2) Il 29 novembre 1425, il vescovo di Aosta fece poi costruire un martinetto e altre strutture per la fusione del ferro, segnando un ulteriore sviluppo dell’attività siderurgica. (3) Il termine triencullos armatos citato nel 1406 sembra riferirsi a un tipo di arma da fuoco o a un congegno bellico, forse una struttura a più canne, simile a un’arma ad organo o a un pezzo di artiglieria. Probabilmente i 120 cannoncini di piccolo calibro sarebbero stati montati a gruppi e disposti a triangolo per essere innescati facilmente e quasi simultaneamente su un affusto a ruote. Si trattava, dunque, di armi per i ribauldequin , una sorta di antenata della mitragliatrice, sistemi che furono utilizzati fin dal Trecento. Oppure si trattava di schioppi, utilizzati singolarmente dai soldati, una sorta di bombarde. Non si può escludere che queste armi, richieste da Amedeo VIII di Savoia, siano state impiegate forse per l’assedio del castello di Castellengo (Cossato, Biella), occupato tra il 4 e il 5 maggio 1406 dal capitano di ventura Bando di Firenze, considerando che la richiesta fatta a Cogne è datata 8 dicembre 1406. Per riconquistare il controllo, Amedeo VIII di Savoia dovette intraprendere un assedio che si protrasse fino a febbraio 1409, quando finalmente riuscì a riprendere possesso del castello. Immagine di copertina: Schioppettiere dà fuoco alla miccia del suo schioppo - immagine di Konrad Kyeser - http://en.wikipedia.org/wiki/File:Lgehumb le_1400.jpg, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=8348588 (1) Archivio Storico Regionale di Aosta (ASRA), Fonds Cogne (FC), volume I, documento n. 27, 8 dicembre 1406. (2) Autenticum manifesti Vallis Cognie , 5 aprile 1408, citato in G. Pipino, Documenti Minerari di Piemonte e Valle d’Aosta dall’anno 1000 al 1635 , p. 11. I documenti, come afferma lo stesso autore, sono tratti per la stragrande maggioranza dal volume “Documenti Minerari degli Stati Sabaudi”, pubblicato nel 2010 . (3) ASRA, FC, I, 37.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 23 settembre 2024
La leggenda delle Dames de Challant Un racconto, che si può far risalire all’inizio della Piccola età glaciale (XVI-XIX secolo), vede protagoniste le donne della nobile famiglia degli Challant. Si narra che, infastidite dal riflesso del sole sui ghiacciai, le donne, dall’alto delle torri dei loro manieri, avessero costretto gli uomini della famiglia a far gettare terra sulla neve per impedire la rifrazione del sole. Tuttavia, la realtà celava motivi ben più profondi e complessi, estranei alle esigenze delle nobildonne. Un tempo, la Valle d’Ayas era anche denominata Kramertal , la “Valle dei Mercanti”, che collegava la pianura padana con la Mitteleuropa in direzione sud-nord. Questa importante via di commercio, o piuttosto un complesso reticolo di itinerari, scomparve tra il XVI e il XVII secolo proprio a causa dell’irrigidimento climatico e dell’avanzamento dei ghiacciai, che resero impraticabili i collegamenti. Gli uomini della zona non gettavano terra sulla coltre nevosa per proteggere la vista e la delicata pelle delle nobildonne, ma piuttosto per tentare di sciogliere le lingue dei ghiacciai, che non si limitavano più a rimanere a monte, ma scendevano fino a valle, minacciando quella strada così importante per il commercio e le relazioni culturali e sociali. Tramite quei tragitti passavano merci, uomini e bestie; le cronache narrano, per esempio, del vino italico che transitava in quelle zone per arrivare oltralpe. Le carte di quei secoli indicano chiaramente quelle strade e il toponimo Ayas (ossia, come oggi, l’insieme dei villaggi circonvicini) come sorta di centro nevralgico della zona. Nel 1633, il teologo svizzero Josias Simler (1530-1576) scriveva che a sud del Cervino esisteva una strada che portava ad Ayas chiamata das Kremertal , ossia valle dei mercanti, “perché gli abitanti di questa zona viaggiano attraverso regioni diverse, trasportando merci d’ogni tipo”. (1) Ma già in quel 1574 si fa cenno alla presenza in zona del ghiaccio che stava avanzando. Curiosità a margine: oggi a scintillare nella zona sono anche le cime chiamate Dames de Challant ... Detto questo, considerando che nel Cinquecento erano state installate delle postazioni di difesa e di controllo sanitario in quelle importanti aree di confine con il Vallese, chissà se si può collegare a quegli eventi la storia che segue, tutt’altro che leggendaria. In copertina: Il castello di Graines (Brusson), C. Ratti, F. Casanova, Guida Illustrata della Valle d’Aosta , p. 88 Storia tratta dal mio libro I cambiamenti climatici sono una leggenda? Come in Valle d’Aosta il clima ha influenzato storia, cultura, tradizioni e... leggende , pp. 32-33, (2024). (1) J. Simler, Vallesiae descriptio, libri duo: de alpibus commentarius , libro I, p. 56.
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