Layout del blog

Manca lo spirito di essere Comunità

Mauro Caniggia Nicolotti • 5 gennaio 2021
Manca lo spirito di essere Comunità

Il principio e la capacità all’autogoverno in Valle d’Aosta sono questioni molto antiche, ma l’oggi - un po' perso nel pensiero unico o globale - tende a generalizzare e a stereotipare il passato anche facendoci dimenticare da dove veniamo.

Infatti, temi quali l’autonomia, l’autogoverno, il federalismo, il ruolo dei Comuni, la provincia (inesistente) di Aosta e perfino le funzioni prefettizie, hanno radici così lontane nel tempo che dovrebbero farci capire come l’attuale Statuto Speciale (1948) sia stato una conquista lunga e faticosa e non un privilegio come vorrebbe qualcuno.

Oggigiorno, oltre al pericolo di dimenticare il nostro particolarismo o anche il "solo" fatto di essere Comunità, il rischio è anche quello di perdere di vista il pensiero e l’azione di chi - forte del passato - ha teorizzato e combattuto per dare (o continuare a dare) alla Valle d’Aosta una qualche forma di autogoverno.

E’ il caso, per citare uno dei tanti esempi, di César-Emmanuel Grappein (Cogne, 1772-1855), che è stato uno degli anticipatori dell’autonomia moderna e il sintetizzatore di quel particolarismo locale che lo Stato anche allora voleva spegnere.
Intorno alla fine del Settecento, infatti, l’onda accentratrice dei Savoia - interessati a uniformare le norme in vigore in tutto il Regno di Sardegna - fece tabula rasa di tutte le peculiarità giuridiche in vigore da secoli in Valle d’Aosta
Dopodiché, la Rivoluzione Francese, l’Impero napoleonico, il Congresso di Vienna e i vari Moti - che in pochi decenni si avvicendarono infiammando lo scacchiere europeo - mutarono ulteriormente gli aspetti sociali, economici, geografici e politici del continente. 
Se, infatti, nel 1818 la Valle d’Aosta fu dapprima eretta come Divisione (rappresentando, così, la forma amministrativa più alta data ad un territorio e quasi assimilabile alla veste delle odierne regioni italiane, nel 1848 un nuovo assetto territoriale dello Stato sabaudo la subordinò al Piemonte come una sua semplice provincia.

Quel nuovo assetto amministrativo sollevò immediatamente un forte coro di proteste. 
Sul giornale Feuille d’Annonces d’Aoste del 30 aprile 1849, per esempio, veniva chiesto quale fosse il senso del termine “Stati Sardi” se non voler enunciare la presenza di un insieme di nazioni, tra cui la Valle d’Aosta.(1) 

Il fatto di perdere l’autonomia amministrativa, dunque, toccò profondamente gli animi dei valdostani, talmente tanto che diversi uomini di cultura dell’epoca prospettarono e progettarono forme di riorganizzazione e di gestione autonoma del territorio. 
E’ il caso, come anticipato, del dottor Grappein che proprio nel 1848 approntò un "Codice amministrativo per la Valle d'Aosta"; l’anno successivo fu poi la volta delle Lois organiques d’une nouvelle administration plus locale, plus indépendante et convenable pour les communes de la Vallée d’Aoste insieme a uno statuto composto da 26 articoli sull’organizzazione comunale e indirizzato all’attenzione di Sua Maestà. 
Nell’articolo primo del "Codice" si enuncia la necessità, per uno Stato fondato su leggi generali, anche della presenza di règlements particuliers adatti per i territori e per le province, considerato che chaque société particulière forme un monde séparé
Richiamando gli esempi federali statunitense e svizzero, Grappein soggiungeva di come “non esista una società ben amministrata come quella che si autogoverna”, anticipando per molti versi alcuni principi federalisti propugnati da Emile Chanoux (1906-1944) nel secolo successivo. 
Nella ricostruzione amministrativa, secondo Grappein in Valle d’Aosta si sarebbe dovuto ripartire dai Comuni, l’entità più piccola ma più rappresentativa presso cui tutti i capifamiglia avrebbero dovuto concorrere al benessere collettivo
Relativamente alla provincia, invece, egli riteneva inutile la reggenza affidata ad intendenti “calati dall’alto” che considerava dei pachas qui pillent les communes et les provinces avec leurs mandats d’office, ritenendo utile sostituirli con un consiglio formato da cinque membri; ... tema attualissimo, oggi, quello del "prefetto" (inesistente) in Valle d'Aosta...    

Queste erano le idee portate avanti da Grappein quando indirizzava i suoi scritti al Re, al quale chiedeva di approvare tali proposte di riforma, affinché venissero abolite quelle in vigore, responsabili a suo dire di aver portato miseria e difficoltà in Valle d’Aosta. Situazione, peraltro, da collegare all’abolizione degli antichi usi e costumi che, come visto in precedenza, erano stati cancellati verso la fine del Settecento: 
Il faut ressusciter l’esprit de localité contre l’esprit de centralité, egli sosteneva nel 1848. 

Con buona pace dei “benaltristi”, per l’ennesima volta ribadisco come i tempi siano propizi per un confronto sul destino della Valle d’Aosta affinché si ritrovi quello Spirito di Comunità, quell'obiettivo di pieno autogoverno valdostano e quell'idea di federalismo per un'Europa fatta di Comunità e più solidale; tutte tematiche tramite le quali anelare un diverso futuro rispetto al regime di belle endormie valdôtaine di oggi.


(1) Quest’ultima qui forme une province, qui a des liens communs, des intérêts particuliers, des habitants propres et qui fut toujours une société distincte des autres pays par son origine, son caractére, ses moeurs, ses besoins, ses usages et sa langue doveva, dunque, considerarsi una nazione, uno Stato. 
- Parte delle informazioni storiche sono tratte da Idee, aspirazioni e percorso di autogoverno valdostano. La lungimiranza di un piccolo popolo (2018) di M. Caniggia Nicolotti e L. Poggianti, pp. 38-45.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 31 marzo 2025
La straordinaria invenzione di una funivia medievale valdostana Un’importante scoperta d’archivio potrebbe riscrivere la storia dell’ingegneria alpina: un antico manoscritto, ritrovato negli archivi della Biblioteca Claustrale di Aosta, testimonierebbe che la prima idea di una funivia risale al XIV secolo e non all’epoca moderna. L’inventore? Uno sconosciuto parroco valdostano, il visionario abbé Aimon de Silvenoire . Chi era l’ abbé Aimon? Nato intorno al 1371 nel piccolo villaggio di La-Rochère (oggi abbandonato, situato lungo la displuviale posta al confine tra Saint-Vincent e Arnad), Aimon entrò giovanissimo nell’ordine benedettino e poi si stabilì nella Chiesa parrocchiale di Sant’Orso di Emarèse, dove si distinse per le sue conoscenze in architettura e meccanica. Profondamente affascinato dalle sfide dell’ambiente alpino, si pose un obiettivo ambizioso: trovare un modo per superare i valichi di montagna senza dover camminare per giorni. Nell’estate del 1410 , Aimon elaborò un sistema di trasporto aereo che chiamò “ Senterius aërostaticus ” (sentiero aerostatico), descritto in un codice miniato recentemente ritrovato: “ et par grandis rotes et cordes de canapa, tirate par de besties de somas et par lo ventus, nos podremos elevar cosas et hommines in cima delli montis, ki volant quasi versum lo cielum ”. Il progetto prevedeva una serie di piattaforme sospese, sorrette da funi di canapa e movimentate da un ingegnoso sistema di carrucole e contrappesi. Gli appunti descrivono anche un rudimentale freno a legno e un sistema di stabilizzazione con vele in pelle di capra. Un disegno schematico mostra persino un carrello appeso a una fune, anticipando di secoli il principio delle moderne funivie. Gli studiosi stanno ora esaminando se l’abbé Aimon avesse avuto contatti con Leonardo da Vinci , il quale, secondo alcune fonti, avrebbe citato nei suoi taccuini un certo Eremīta Vallis Augustæ (Eremita Valdostano) come ispiratore di alcuni suoi studi sulle macchine da sollevamento. Perché la sua invenzione fu dimenticata? La storia narra che il vescovo di Aosta, Ego Absentius (1410-1411) impressionato dal progetto ma timoroso delle sue implicazioni, abbia dichiarato il “ Senterius aërostaticus ” un’opera contro Dio, vietandone la costruzione e facendo bruciare i disegni originali. Tuttavia, una copia del manoscritto sarebbe stata salvata e conservata segretamente da alcuni monaci dissidenti, fino al suo ritrovamento il 1’ aprile 2025. E oggi? L’interesse per la scoperta ha però superato i confini valdostani: negli USA alcuni gruppi di ricerca stanno studiando il modello medievale per un futuristico progetto di funivia che unirebbe tra loro il Canale di Panama, gli Stati Uniti, il Canada e la Groenlandia . Le autorità stanno invece valutando se riabilitare post mortem l’ abbé Aimon, in quanto il suo sistema di trasporto alpino non offenderebbe più l’Altissimo; al massimo - e per i più scettici e increduli - forse oggi qualcuno lo vedrebbe come un pesce d’aprile.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 27 marzo 2025
La statua che si muoveva ad Aosta Lungo la navata meridionale della Cattedrale di Aosta, in alto, c’è una statua. Si tratta di un altorilievo, in gesso e legno policromo risalente alla fine del Medioevo. È priva di mani, ma non di sguardo. Ritrae il beato Bonifacio di Valperga (seconda metà del XII secolo-1243), vescovo mite e sapiente, che nel XIII secolo guidò con dolcezza e tenacia la Chiesa valdostana. Oggi in pochi vi si soffermano. Anche perché il manufatto si trova ad una certa altezza da terra. Ma un tempo, quella statua… si muoveva. Non come nelle storie d’ombra. No. Il beato si muoveva per nostalgia. Ogni notte, quando le navate dormivano e il respiro deIle cose si faceva sottile, si racconta che la statua si staccasse dal suo posto. Non per fuggire. Ma per ritrovare. Passava davanti all’altare maggiore, si fermava là dove sorgeva l’antico ambone, indugiava vicino alla cripta, come un uomo che torna a visitare la propria casa, stanza per stanza. Al mattino, chi conosceva la statua a memoria diceva di notare leggeri spostamenti. Un piede appena più avanti. La grande veste chiara che lo avvolgeva, increspata in pieghe mutevoli. Il volto inclinato in un’altra direzione. E qualche volta, una scia di polvere sottile, minuscoli calcinacci, come se la statua nel muoversi, si fosse scontrata contro i secoli. All’inizio, si taceva. Poi le voci si fecero più insistenti. C’era chi si spaventava, chi parlava di spirito irrequieto. E così si decise di trovare un compromesso. Si rimossero le mani della statua, con delicatezza. Non come punizione, ma come accordo: il beato sarebbe rimasto tra le sue mura amate, ma fermo, non trovando modo di appigliarsi per scendere e poi per risalire al suo posto. Pare che egli accettò, senza dolore. Perché sapeva che anche l’immobilità può custodire presenza. E per mitigare la sua nostalgia, fu concesso un dono ulteriore: nella nuova facciata della Cattedrale, eretta più tardi, fu dipinta la sua immagine, appena fuori dal portone, sulla sinistra per chi entra, affinché potesse vedere il mondo passare, il tempo scorrere, la vita continuare. Là dove si può ammirare ancora oggi. Così Bonifacio si fece presenza silenziosa, dentro e fuori. Oggi, nessuno più lo vede muoversi. Ma in certe sere, quando l’ultima messa svuota la Cattedrale e il chiostro sussurra, qualcuno giura di avvertire un profumo sottile - come d’incenso e neve. E se ci si ferma davanti a lui, in silenzio, si ha l’impressione che la sua testa si inclini appena, come a dire: “Sì, ogni tanto torno qui. E veglio. Veglio sulla Cattedrale”. Mauro Caniggia Nicolotti, 20 25
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 24 marzo 2025
Il mistero del bambino di Villeneuve Il 17 aprile 1892, il periodico svizzero La Sentinelle riportava la seguente notizia: “Ieri, verso le tre del mattino, un impiegato della stazione di Losanna, che ha voluto restare anonimo, aveva accompagnato in un bar un grazioso bambino ( un joli petit gamin ) per offrirgli un bicchiere di vino e una brioche. Il piccolo indossava un cappotto di velluto grigio, tipico degli operai italiani. All’inizio non osava parlare: la sua timidezza e forse anche la difficoltà di esprimersi gli permisero appena di dire che veniva da Villeneuve. Stavamo per telegrafare alle autorità di quella località quando il bambino estrasse un biglietto ferroviario di terza classe, valido per una corsa da Martigny a Parigi, accompagnato da un indirizzo e da un estratto di nascita del Comune di Villeneuve, Valle d’Aosta. È quindi probabile che l’infortuné voyageur abbia attraversato il Gran San Bernardo per giungere fino alla capitale del Canton Vaud. Il petit italien si rifiutava di bere e mangiare; a ogni tentativo di porgli qualche domanda, rispondeva solo con una nuova effusione di lacrime. L’indirizzo che portava con sé lasciava facilmente supporre che il piccolo Victor, questo il suo nome, fosse stato oublié volontairement ”… Di lui non si conoscono altre notizie. Ma, al di là di tutto, come si fa ad offrire a un bambino un bicchiere di vino…? Altri tempi, mi si dirà...
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 20 marzo 2025
Una fabbrica di munizioni ad Aosta? Un’eco dal passato Oggi, il mondo assiste a nuove tensioni internazionali, con una corsa agli armamenti che sembra ripetersi come un ciclo ineluttabile della storia. Guerre e conflitti alimentano il dibattito sugli investimenti nel settore bellico, sollevando interrogativi sulla nuova geopolitica, sulle strategie politiche e sulle implicazioni economiche. Ma simili discussioni non sono certo nuove, anzi, sono un refrain che l’umanità conosce bene. Uno dei tanti esempi, forse sconosciuto ai più o misconosciuto, è il caso della Valle d’Aosta. Sul finire del XIX secolo, Aosta veniva menzionata come possibile sede di un impianto per la produzione di munizioni da guerra. Nel giugno del 1890, diversi giornali riportavano la notizia di un progetto per costruire una fabbrica di munizioni nei dintorni di Aosta. La Sentinelle , giornale elvetico, nell’edizione dell’8 giugno, ne dava notizia prima ancora dei giornali valdostani; probabilmente riprendendo l’informazione dal periodico italiano Corriere Nazionale del giorno precedente. Il giornale spiegava che l’iniziativa sarebbe stata sostenuta da capitalisti italiani in società con case tedesche già attive in questo settore a Dresda, Francoforte e Strasburgo. Le Valdôtain , nell’edizione dell’11 giugno, aggiungeva dettagli sulla voce che circolava a Roma, auspicando: Nous nous souhaitons que cette nouvelle ait un fondement de vérité et que cette fabrique ne demeure pas toujours à l’état de pieux désir (“Ci auguriamo che questa notizia abbia un fondamento di verità e che questa fabbrica non resti sempre allo stato di pio desiderio”). Il tono è chiaro: vi era una certa speranza che l’iniziativa si concretizzasse, forse anche per i benefici economici che ne sarebbero derivati. Infine, sempre l’11 giugno, anche il giornale Feuille d’Aoste confermava tutte le indiscrezioni. Questa fabbrica, se fosse stata costruita, avrebbe potuto cambiare il destino industriale della Valle d’Aosta, proiettandola nel panorama della produzione bellica europea. Ma cosa ne fu di questo progetto? Le cronache successive non ne parlano più, segno che l’iniziativa sfumò prima ancora di prendere forma. Forse, mutata e adattata alle tecnologie di armi più sofisticate nel tempo, oggi quella fabbrica non sarebbe più un vanto, e quel “pio desiderio” auspicato quasi un secolo fa apparirebbe sotto una luce molto diversa. I nostri valori fortunatamente sono cambiati..., purtroppo le idee bellicose di taluni no.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 17 marzo 2025
Laetitia Nourissat, investigatrice valdostana Parigi, domenica 16 maggio 1937, fine pomeriggio. Metropolitana. Una donna elegante salì su un vagone vuoto di prima classe, appena tornata dalla visita a suo fratello. Il mezzo partì, e fra la Porte de Charenton e la Porte Dorée, in meno di due minuti di viaggio, la donna fu pugnalata al collo. Trasportata all’Hôpital Saint-Antoine, spirò poco dopo senza riuscire a dire nulla. La vittima era la vedova Toureaux, Yolande Laetitia Nourissat, originaria di Oyace, in Valle d’Aosta, nata l’11 settembre 1907, ma residente nella capitale francese. Suo marito Jules, sposato segretamente nel 1930, era morto nel 1935. Il motivo di questo efferato delitto rimase oscuro. Inizialmente, la polizia considerò l’ipotesi di un sadico o di un folle. (1) La vita della signora Toureaux fu attentamente esaminata, ma non fu possibile trovare una spiegazione chiara. La donna sembrava condurre una vita appartata e discreta nella Parigi fébrile de joies factices . (2) La polizia avviò un’ampia indagine, interrogando migliaia di persone, ascoltando 56 testimoni e ricevendo migliaia di lettere anonime, quasi tutte inutili per risolvere il caso intricato. La stampa, nel suo solito stile sensazionalista, avanzò ipotesi stravaganti che spesso venivano smentite poco dopo. Un giornale francese, pochi giorni dopo il crimine, sostenne che Laetitia Toureaux conduceva una vita doppia. Dotata di una sensualità e di un temperamento passionale, la donna si era dedicata alle indagini poliziesche. Tra il 1935 e il 1936, era stata assunta da un ex-agente della Sicurezza Nazionale per lavorare in un’agenzia investigativa, l’ Agence Rouff , entrando così in contatto con ispettori e funzionari di polizia. Secondo il giornale, il direttore dell’agenzia la fece assumere successivamente come segretaria in una fabbrica a Saint-Ouen-sur-Seine (comune a nord di Parigi), dove avrebbe potuto infiltrarsi per ragioni non del tutto chiare. Il giornale ipotizzò che l’indagine sul crimine della Porte Dorée avesse toccato interessi potenti e forze oscure in azione. (3) Tra le diverse testimonianze raccolte da quel periodico, una affermava che Laetitia era un’ottima investigatrice: dans ce métier délicat, elle rendait des points à des detectives-hommes , assicurava un ispettore della polizia giudiziaria. La stampa continuò a occuparsi del caso nei successivi anni, pubblicando varie informazioni, tra cui l’appartenenza di Laetitia alla popolare Ligue républicaine du Bien Public ; secondo L’Aurore del 24 agosto 1945, invece, la donna apparteneva all’organizzazione segreta Cagoule (4) e siccome était bavarde attirò a sé le ire di qualcuno: la Cagoule ne lui pardonna pas ses relations avec le 2e Bureau . (5) Un giornale valdostano, dopo venti giorni dal fatto, dichiarò: nous sommes encore sous la pénible impression de tout ce qui a été dit et écrit sur ce fait lamentable et qui est resté mystérieux et indéchiffrable . (6) Si scoprì che qualche giorno prima del delitto, Laetitia era sfuggita ad un tentativo di aggressione. Al capo stazione, proprio la sera in cui sarebbe morta, la donna aveva raccontato quel fatto. (7) Il giorno della sua morte, Laetitia cambiò radicalmente il suo aspetto, abbandonando i colori scuri e la veletta per indossare un vestito verde e un cappello bianco, con i capelli passati dal colore bruno naturale al biondo. Un giornale francese suggerì che questo cambiamento equivalesse a un travestimento completo. (8) La stampa avanzò due possibili cause dell’omicidio: la prima suggeriva che Laetitia potesse essere stata punita da criminali legati ai locali da ballo che frequentava e dove ogni tanto lavorava per aver parlato troppo, mentre la seconda ipotizzava che potesse essere stata vittima di un’organizzazione segreta con chiare tendenze politiche, poiché conosceva troppi segreti che avrebbe poi rivelato alla Sicurezza Nazionale francese. (9) Nel 1948, undici anni dopo i fatti, un uomo si dichiarò colpevole, ma si scoprì che era affetto da disturbi mentali. Venticinque anni dopo, nel 1962, un altro uomo si autoaccusò, ma l’indagine non fu aperta a causa della prescrizione del reato. Tale segnalazione, molto dettagliata e anonima, spiegava il crimine come passionale e spinto dalla gelosia. Fin dall’inizio, il giornale Paris-soir espose il caso Toureaux come un enigma che suscitava interesse e discussione. L’affare rimase intricato, enigmatico, con ogni nuova rivelazione che sembrava complicare ulteriormente il mistero. In più, il periodico si espresse in questi termini, che prendo a prestito poiché sembrano quasi profetici: Quoi qu’il en soit, l’affaire Toureaux est l’objet de toutes les conversations. Les plus grands écrivains, déjà, et parmi ceux qui semblaient pourtant les plus éloignés des faits divers, se sont penchés sur ce mystère que chaque clarté nouvelle, par un curieux paradoxe, semble obscurcir . (10) Un caso intricato, enigmatico, dunque. Qualcuno, ancora anni fa, definì Madame Toureaux una Mata Hari valdostana. (11) Immagine di copertina: Disegno giornale, La Presse , 4 aprile 1949, Illustration de Clauss . (1) Ce soir , 22 maggio 1937. (2) L’Echo de la Vallée d’Aoste , 4 giugno 1937. (3) L’enquête sur le crime de la porte Dorée ne fait véritablement que commencer. Elle touche à des intérêts puissants, à des forces obscures. et agissantes . Le Radical de Marseille , 22 maggio 1937. (4) Cagoule (cioè cappuccio) era il nome con cui veniva riconosciuta la Organisation secrète d’action révolutionnaire nationale , organizzazione armata di estrema destra con orientamento fascista e anticomunista, attiva in Francia negli anni Trenta. (5) Dal 1871 al 1940, il Deuxième Bureau francese si occupava di raccogliere informazioni militari nemiche. (6) L’Echo de la Vallée d’Aoste , 4 giugno 1937. (7) En tout cas, j’ai eu peur. Mais maintenant je prends mon pépin pour me défendre. Figurez-vous que j’ai été attaquée, l’autre soir, en sortant du métro. Si je n’avais pas pu me débarrasser de mon agresseur je vous aurais peut-être appelé au secours . Le Radical de Marseille , 22 maggio 1937. (8) Un tel changement, assurent les spécialistes équivaut à un déguisement complet . La Presse , 4 aprile 1949. (9) La prima poteva considerare la vittima comme une “donneuse” par des “durs” qui fréquentaient les bals musette où elle était employée, s’était vu appliquer sans pitié la loi du milieu. Pour avoir trop bavardé, elle avait été condamnée au silence eternel . La seconda, invece, veniva descritta così: la Valdôtaine avait été la victime d’une organisation secrète à tendances politiques marquées. Un tueur avait été désigné pour l’abattre; elle connaissait trop de secrets . Segreti che la donna avrebbe poi rivelato alla Sicurezza Nazionale francese. Le Radical de Marseille , 22 maggio 1937. (10) Edizione del 23 maggio 1937. (11) Così fu definita Laetitia Toureaux da Pierre Desgraupes alla radio francese. Le Peuple Valdôtain , 24 luglio 1981.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 13 marzo 2025
In gita da cent’anni Nel 1913 il Touring Club Italiano istituì un Comitato Nazionale di Turismo Scolastico , incaricato, come stabilito nel suo programma, “di sostenere e integrare le iniziative delle istituzioni esistenti, collaborando all’educazione di una gioventù ricca di ideali, sana, robusta, pronta a fare sacrifici, temprata contro tutte le forme di egoismo, aperta ai più nobili entusiasmi, desiderosa di conoscere tutta la nostra bella Patria, nella Natura e nell’Arte, nella leggenda e nella storia, nelle opere dell’ingegno umano e nelle vaste solitudini delle montagne: insomma, in tutto ciò che essa contiene di bello, di grande, di immortale.” Idee che il TCI concretizzò dal 1917 tramite la rivista La Sorgente . (1) Da allora iniziarono quelle che oggi chiamiamo gite scolastiche o visite di istruzione. La prima organizzata del Comitato si svolse a Saint-Nicolas il 29 aprile 1923. (2) In Valle d’Aosta seguirono altre attività nel corso dello stesso anno: “Come annunciato di recente, è stata istituita una Commissione di Turismo Scolastico ad Aosta, con lo scopo di organizzare passeggiate ed escursioni istruttive nella Valle d’Aosta: visite ai monumenti romani e medievali, agli stabilimenti industriali, fenomeni di geomorfologia, vegetazione alpina, punti panoramici, ecc. Ogni mese sarà dedicata una serata artistico-didattica con proiezioni fisse o animate”. Ecco il programma delle passeggiate ed escursioni proposto per il 1923: “ Gennaio : Saint-Nicolas, Avise Leverogne. Febbraio : Fabbrica di Saint-Marcel, Septumian, castello di Fénis, villaggio di Miserègne, Chambave. Marzo : Centrale idroelettrica di Introd, resti della strada romana a Champrotard, Châtel-Argent. Aprile : 1-8. Partecipazione al “Grande Convegno studentesco per la celebrazione del primo decennio del Comitato Nazionale di Turismo Scolastico” che si terrà a Milano. Fine del mese: Châtillon, castello d’Ussel, pont des chèvres, gole e castello di Monjovet. Maggio : Eaux-Froides, Galleria del Drinc, Epinel, Pont-d’Aël. Giugno : Mont de La Saxe (2.348 m) a Courmayeur. Luglio : Mont Zerbion (2.722 m) a Châtillon. Agosto : Visita al campo del Touring a By e ai laghi del vallone dell’Eau Blanche (Ollomont). N.B. - Le programme détaillé sera distribué fois par fois dans toutes les Ecoles d’Aoste ”. E così, le radici del turismo scolastico furono gettate, permettendo alle nuove generazioni di esplorare e scoprire ciò che li circonda in modo educativo e appassionante. Nel corso degli anni, queste modalità di visita hanno prosperato, arricchendo le scolaresche e creando ricordi duraturi di avventure condivise. Immagine di copertina: vista dallo Zerbion. (1) Augusta Pretoria , ottobre-novembre 1920, n. 9-10, p. 202. (2) L’iniziativa si sarebbe dovuta svolgere il 25 marzo, ma fu posticipata. Da Aosta a Saint-Pierre, i partecipanti si spostarono con i mezzi, poi salirono a piedi fino a Saint-Nicolas. Successivamente, scesero ad Avise e ripartirono da Leverogne per Aosta in vettura. Le Mont-Blanc , 27 aprile 1923.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 6 marzo 2025
I giorni scomparsi dalla storia valdostana Sotto silenzio è passato il 29 (o 28) febbraio, anniversario di una svolta storica: nel 1536, la Valle d’Aosta adottò il francese nell’amministrazione, abbandonando il latino. Un atto di avanguardia, tre anni prima che lo facesse la Francia stessa. Sotto silenzio passerà anche il 7 marzo. Quel giorno, nel 1536, con i territori sabaudi quasi tutti invasi dai francesi, la Valle d’Aosta si trovò sola. Ma non si piegò. Si organizzò come un vero e proprio Stato, sopravvivendo per un quarto di secolo alle grandi guerre europee. Istituì un organo di governo, il Conseil des Commis , che si occupava di ogni ambito della vita pubblica. Sono pilastri della nostra identità, eppure dimenticati. Il Conseil des Commis prima e il Consiglio Valle poi rappresentano le due massime espressioni della nostra autodeterminazione. Da sempre, la nostra autonomia si fonda sulla lingua e sull’autogoverno. Non sono simboli di divisione, ma di coesione. E oggi? Cosa resta di quella fierezza? La bandiera nero-rossa dovrebbe essere il segno di un’identità condivisa, non un pezzo di stoffa appeso a sbiadire. La politica dovrebbe farne un baluardo, non come simbolo di scontro, ma come collante. La politica deve essere unita nella trasmissione dei valori che ci hanno permesso, con fatica, di ottenere lo Statuto Speciale. E la scuola? Non può restare troppo asettica, o neutra, oppure, a volte, addirittura distaccata dalla civilisation valdôtaine . Perché senza radici, non c’è futuro.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 3 marzo 2025
Giulia Ferri de Rolland Giulia Ferri (1842-1929), originaria di una famiglia fanese di conti - suo padre Carlo fu governatore di Perugia -, (1) può essere considerata a tutti gli effetti una pioniera dell’alpinismo italiano. Si distinse per la sua determinazione e passione per la montagna, che la portarono ad essere la prima donna italiana a raggiungere le vette più alte dell’arco alpino. Di questa straordinaria donna si conosce poco. Nel 1864 sposò il barone Jules-Alexandre de Rolland (1820-1901), allora prefetto della provincia di Pesaro, acquisendo così il titolo nobiliare. Fu molto attiva e impegnata nel sociale, tanto che le cronache la citano nel 1866, durante la Terza guerra d’indipendenza italiana, quando organizzò in prefettura un Comitato di signore, il quale dividendosi in altri subcomitati per quanti sono i rioni della città, adottava di preparar filaccie, bende e camicie per i feriti, e corone pei vincitori . ( 2 ) Il barone de Rolland, in seguito, fu eletto alla Camera dei deputati per il collegio di Aosta (1880-1882), indirizzando la coppia verso la Valle d’Aosta. (3) Non a caso, le cronache valdostane iniziano a parlare di lei solo nel 1880, quando la coppia soggiornava a Courmayeur. Alla guida de toutes les dames des Colonies Italiennes et étrangères qui s’y trouvaient réunies , accolse la regina d’Italia, con cui vantava una stretta amicizia, presso l’Hôtel de L’Ange durante la sua visita alla località. Giulia Ferri si innamorò subito delle montagne e dell’asprezza del territorio. Il 16 luglio 1882 era a La Thuile a sostenere l’opera della sezione di Aosta del Club Alpino Italiano, che stava organizzando una raccolta fondi per migliorare l’accesso alle bellezze naturali locali. Ponti, sentieri e terrazzamenti richiedevano manutenzione o di nuovi interventi. Una sottoscrizione pubblica fu aperta a tal fine, et la courageuse alpiniste, Mme la baronne de Rolland la prit sous son patronage à Courmayeur . L’8 agosto 1883, una sessantina di ragazzine, riunite nel giardino dell’Hôtel de L’Ange, ricevettero dalla baronessa numerosi capi d’abbigliamento (vestiti, maglioni, scialli, cappelli, ecc.). La sua generosità suscitò grande entusiasmo e, tra grida di gioia, le giovani abbracciarono la loro benefattrice. Poche settimane dopo, la baronessa de Rolland era pronta per la sua più importante impresa alpinistica: raggiungere la vetta del Monte Bianco (4.807 m) . Per farlo, attraversò il Colle del Gigante, raggiunse Chamonix e salì il colosso dalla via francese il 27 agosto. C’est la première italienne qui ait fait jusqu’ici cette ascension, riportava un giornale dell’epoca . Al suo ritorno al villaggio savoiardo, l’intrépide alpiniste ricevette l’ovazione dei turisti presenti e furono organizzati scoppi di petardi. Secondo un giornale svizzero “al suo ritorno a Chamonix, in suo onore è stato sparato un colpo di cannone, mentre la popolazione l’ha accolta con un coro di “Evviva l’Italia!”. Donna di polso, attiva e intraprendente, non mancò di far sentire la propria voce anche in ambito politico. Durante una festa tenutasi a Châtillon nel 1885, suo marito, nel presentare il benvenuto alle varie autorità comunali e ad altre personalità di rilievo, non dimenticò di faire une large place au plus bel ornement de la fête, à Mme la Baronne de Rolland, qui présidait à la table ronde . Poche settimane prima, il 18 agosto 1885, era salita fino all’Aiguille des Glaciers (3.816). Il 2 settembre 1886 si cimentò in un’altra impresa straordinaria: la scalata delle Grandes Jorasses (4.208 m), cette immense montagne qui parait vouloir lutter avec le Mont-Blanc, et que peu d’alpinistes osent affronter . Fu la prima donna a raggiungere la vetta, e secondo le cronache dell’epoca lo fece con straordinaria facilità e in breve tempo. La sua eccellente forma fisica le permise, nello stesso periodo, di partire dal rifugio Vittorio Emanuele II (Valsavarenche) per salire in cima al Gran Paradiso (4.061 m). Il 3 agosto 1887, Giulia de Rolland, partita dalla capanna al Colle del Gigante, raggiunse la Tour Ronde (3.792 m). All’inizio di agosto del 1889, la baronessa de Rolland affrontò il Dente del Gigante (4.014 m), ascensione réputée jusqu’ici impossible . Pochi giorni dopo, il 31 agosto, scalò la Grivola (3.069 m). Fu lei stessa a raccontare le sue imprese estive, che vennero pubblicate su La Rivista Alpina , n. 10, uscita in ottobre. (4) Il 3 settembre 1891, la nobildonna raggiunse la Punta Dufour (4.634 m), la vetta più alta del Monte Rosa. Alla sua passione per la montagna si accompagnava anche quella per la fotografia. Un giornale del 1893 informava che la baronessa, “ben nota nel mondo dell’alpinismo e soprattutto nella Valle d’Aosta, ha ottenuto una medaglia di bronzo alla mostra fotografica di Torino. Ha esposto una quantità di vedute alpine realizzate con una rara abilità: le cime del Monte Bianco, il Dente del Gigante e molte altre vette delle nostre Alpi. Madame la baronessa de Rolland è appassionata delle nostre montagne, che ha percorso compiendo ascensioni pericolose e di prim’ordine. Al gusto per l’alpinismo, unisce quello per l’arte, e i suoi lavori fotografici contribuiranno a far conoscere sempre più le bellezze della Valle d’Aosta”. La mostra, organizzata e ospitata dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, presentò una selezione delle sue fotografie scattate durante le peregrinazioni alpine; queste e altre immagini furono successivamente donate alla sezione del CAI del capoluogo piemontese. Negli anni successivi, quando la montagna divenne per lei sempre più lontana, continuò a dedicarsi alla beneficenza, attività che non aveva mai abbandonato. Nel 1901, ad esempio, contribuì alla raccolta fondi per la costituzione del giardino botanico al Plan Gorret di Courmayeur. Con il passare del tempo, le tracce di Giulia Ferri si affievolirono, e non sembrano esistere fotografie che la ritraggano. Si spense nel 1929, all’età di 87 anni, lasciando un’eredità di coraggio, passione e impegno che merita di essere ricordata. (1) Nel 1892, Giulia Ferri avviò importanti lavori di ristrutturazione e ampliamento nella villa di famiglia a Fano, che in seguito prenderà il suo nome. https://www.histouring.com/strutture/relais-villa-giulia/ (2) Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia , 21 maggio 1866. (3) Da Chieti fu spostato a Livorno, poi a Firenze (1876). Dopo il seggio di Aosta, rappresentò successivamente Ivrea, poi fu senatore e consigliere provinciale di Torino dal 1885 al 1895 (4) Feuille d’Aoste , 6 novembre 1889.
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 1 marzo 2025
Alle origini della Fëta dou barò di Cogne In occasione del carnevale del 1903, la gioventù di Cogne, desiderosa come sempre di ballare e divertirsi, inviò un carrettiere ad Aymavilles per acquistare quattro barili di vino, poiché a Cogne, situata ad un’altitudine priva di vigneti, non è possibile produrlo. Il trasportatore, una volta terminato l’acquisto, intraprese il viaggio di ritorno con il suo prezioso carico, godendosi la fresca giornata e concedendosi qualche sorso di troppo di vino lungo il percorso. Mais le chemin de Cogne, surtout en hiver, a toujours été funeste aux charretiers qui sacrifient à Bacchus! (1) così si espresse un giornale dell’epoca; (2) un modo elegante per sottolineare quanto la strada, già difficile di per sé, dovesse essere affrontata con sobrietà e cautela. In quei giorni, poi, il paesaggio era dominato dal ghiaccio e dalla neve, rendendo il tragitto ancora più arduo e pericoloso. Ma i giovani di Cogne, colmi di entusiasmo e felicità all’idea delle prossime serate di festa, non potevano più attendere che il carrettiere arrivasse in paese. Decisero così di andargli incontro lungo la strada munie d’un accordéon dont les accords faisaient trémousser ces jambes alertes, pleines de fourmillements. Ma, marche que te marche sempre più giù per il ripido sentieraccio di Cogne, l’ansia dei ragazzi cresceva ad ogni passo. E quando raggiunsero il villaggio di Vieyes, si trovarono di fronte ad uno spettacolo inatteso e spaventoso: nel burrone sottostante, a circa cento metri sotto di loro, giacevano il mulo, il carretto e i barili, precipitati in fondo al dirupo. La povera bestia era morta, il mezzo di trasporto si era fracassato en mille morceaux e il vino aveva macchiato di rosso la neve immacolata. Il conducente, confuso e sconvolto, era invece seduto ai bordi della strada, incapace di credere alla catastrofe appena subita; a pensarci bene, solo due giorni prima gli avevano offerto seicento lire per il mulo! L’episodio descritto, tratto da un giornale dell’epoca, potrebbe essere stato il germe di una tradizione ancora oggi viva e sentita nella valle di Cogne: la Fëta dou barò , ossia la “Festa del barile”. Questa celebrazione rappresenta ancora oggi un momento di passaggio all’età adulta per i giovani coscritti della valle, per quanto la leva militare obbligatoria sia stata abolita a partire dal 2005. Da notare, inoltre, che a Cogne un tempo era consuetudine che i parenti e gli amici dei giovani coscritti accompagnassero i ragazzi per un breve tratto di strada, giusto il tempo di un ennesimo saluto prima che leurs braves qui se rendaient au district militaire abbandonassero la vallata. Al netto di queste diverse vicende, si potrebbe sostenere che a partire dal 1904 nacque la tradizione di accogliere il vino a Épinel. Ancora oggi, nel villaggio, il barilotto (della capienza di 50 litri) viene portato a spalla solo dai giovani del paese che compiono un tratto della piazza. Successivamente, il barile viene trasportato in corteo dai giovani fino a Cogne su un carretto trainato da un mulo. Dopo una meritata tappa a Crétaz, con tanto di spuntino, i festeggiamenti continuano nel capoluogo con balli e divertimento, durante i quali tutti i giovani coscritti della comunità dimostrano le loro abilità trasportando su una spalla il pesante barile. Quest’ultimo non deve cadere, altrimenti non porta fortuna alla classe di quell’anno... oltre al danno, forse a ricordo di quell’incidente del 1903. Chissà! (1) “Ma la strada di Cogne, soprattutto in inverno, è sempre stata funesta ai carrettieri che si sacrificano a Bacco!”. (2) Articolo firmato X. X, Le Mont-Blanc , 13 marzo 1903 .
Autore: Mauro Caniggia Nicolotti 25 febbraio 2025
Una “strana idea d’indipendenza” della Valle d’Aosta Nel corso dei secoli, la Valle d’Aosta ha sempre coltivato l’idea dell’autogoverno. In passato, la nostra terra non solo ha maturato questa idea, ma, forte di numerosi momenti di gestione autonoma, ha sperimentato e consolidato un sistema amministrativo incentrato sul far da sé. L’autonomia moderna, sancita costituzionalmente tra il 1945 e il 1948, rappresenta semplicemente il risultato di secoli di capacità di autogestione quando la presenza statuale di turno era marginale in un sistema valdostano che si reggeva quasi da solo. Nel 1848, però, l’assetto amministrativo del Regno di Sardegna subì cambiamenti e il territorio della Valle d’Aosta, all’epoca paragonabile a una regione moderna, fu declassato a provincia del Piemonte. Nel 1859, fu addirittura ridotto a semplice circondario della provincia di Torino. Tra le molte richieste di riottenere l’autonomia amministrativa perduta, ce n’è una poco nota, nascosta tra le pagine di un giornale. Nel 1913, il settimanale Pays d’Aoste titolò in modo curioso un articolo: La percée du Mont-Blanc et l’indépendance du Pays d’Aoste . (1) L’articolo denunciava come la regione fosse diventata un cul-de-sac che impoveriva tutti. In sintesi: in passato, le antiche vie avevano consentito il passaggio di molte persone, idee e commerci; ciò andò avanti finché il Pays d’Aoste continuò a se tenir en communication avec tous les peuples du nord et de l’ouest de l’Europe . Ma con l’arrivo delle ferrovie, tutto cambiò poiché lo Stato sabaudo privilegiò il Moncenisio e il Frejus come percorsi, volendo portare vantaggi alla città di Torino. Il collegamento tra Aosta e Ivrea invece, arrivò tardivamente e con difficoltà nel 1886 e non certo “per i begl’occhi dei Valdostani”, ma “per motivi strategici e di difesa nazionale: “La Valle d’Aosta non doveva più riaprire le sue antiche comunicazioni con i paesi transalpini, e i valdostani dovevano sempre dipendere da Torino per recarsi in Savoia o in Svizzera, a due passi da casa, al di là del confine!”. Così nacque l’idea per qualcuno di una soluzione amministrativa sui generis: perforare il massiccio del Monte Bianco per far passare una linea ferroviaria e ottenere anche l’ indépendance politique du pays d’Aoste . Il giornale precisava: “È ovvio che per indipendenza politica non intendiamo la separazione dallo Stato, ciò è molto lontano da questo. Vogliamo semplicemente dire che, nella politica interna, la Valle d’Aosta deve emanciparsi dal controllo che i politici torinesi hanno sempre voluto e spesso sono riusciti ad imporre ai valdostani. Questo non è affatto facile, poiché con i sistemi centralizzatori che ci opprimono, una grande città come Torino ha un potere colossale, e il peso di una piccola provincia deve ovviamente essere sproporzionato. Tuttavia, non bisogna disperare. Abbiamo visto in passato che i rappresentanti della Valle d’Aosta sono stati in grado di resistere coraggiosamente ai torinesi, e la questione del Monte Bianco aveva fatto progressi così significativi che la stampa torinese aveva iniziato a gridare e a intraprendere una campagna che, ahimè, è riuscita troppo bene! Più tardi, tutto è tornato nel silenzio. Ci sembra che sia ora di romperlo”. Il tutto si ruppe sì, ma solo dopo la Seconda guerra mondiale, quando i decreti luogotenenziali del 7 settembre 1945 finalmente staccarono la Valle d’Aosta dal Piemonte, rendendola autonoma e poi a Statuto Speciale (1948). Per la cronaca, il tunnel del Monte Bianco fu aperto al traffico nel 1965. Une drôle d’indépendance , quella che, alla fine, ha visto un traforo aprire solo una strada, mentre l’autonomia era già emersa dalle radici della terra. (1) Edizione del 24 ottobre.
Altri post
Share by: